26 febbraio 2020 11:12

Tra tutti i paesi colpiti dall’epidemia di coronavirus fuori della Cina, l’Iran è il più inquietante, il più opaco e il più sconcertante.

L’immagine simbolo dell’epidemia iraniana è quella del viceministro della sanità che il 24 febbraio si asciugava la fronte e sembrava sofferente durante una conferenza stampa in cui tentava di convincere la popolazione che la situazione era sotto controllo. Lo stesso ministro, il giorno successivo, ha diffuso un video in cui annuncia di aver contratto il virus e di essere stato ricoverato.

L’incoerenza dei dati diffusi spinge gli specialisti a temere che la realtà sia ben più grave di quanto vogliano ammettere le autorità iraniane. Il 25 febbraio le cifre ufficiali parlavano di 16 morti e un centinaio di casi. Secondo questi dati, laddove in tutti gli altri paesi il tasso di mortalità sembra essere del 2 per cento, l’Iran avrebbe un tasso sette volte più elevato. È inverosimile, e a questo punto i casi sono due: o il numero di casi è volutamente minimizzato o le capacità di analisi sono limitate e il governo non conosce la portata dell’epidemia sul suo territorio.

La sopravvivenza del regime
In Iran il rischio è doppio. Prima di tutto, come in Cina, l’assenza di una cultura della trasparenza semina il dubbio. Molti ricorderanno che l’Iran ha appena vissuto lo scandalo dell’aereo ucraino abbattuto durante il decollo a Teheran, con il conseguente tentativo di far passare l’errore dell’esercito per un incidente.

L’elemento principale, però, è un altro. In Iran la sopravvivenza del regime ha la priorità su qualsiasi altra considerazione, compresa la salute pubblica e soprattuto in questi tempi segnati dallo scontro con gli Stati Uniti. Il 25 febbraio il presidente iraniano Hassan Rohani ha preso la parola per denunciare un “complotto” dei nemici del paese per seminare il panico. Rohani ha chiesto che la vita prosegua in modo normale e ha promesso che l’epidemia sarà rientrata entro il 29 febbraio.

La negazione della realtà si manifesta in modo particolare nella città santa sciita di Qom, situata 150 chilometri a sudovest di Teheran ed epicentro dell’epidemia nel paese. La città, con una popolazione di un milione di abitanti, accoglie venti milioni di visitatori all’anno, e le autorità religiose si sono rifiutate di rinunciare alle grandi preghiere collettive.

L’epidemia ha un enorme potenziale di destabilizzazione ovunque si diffonda

Davvero l’Iran ha i mezzi per contenere l’epidemia? Sembra difficile, considerando che il paese è sottoposto a un embargo petrolifero che lo priva della sua risorsa economica principale e che da oltre due mesi vive una crisi degli approvvigionamenti, medicine comprese.

La situazione inquieta i paesi vicini. È il caso di Kirkuk, nel nord dell’Iraq, dove i primi quattro casi di contagio sono quelli di una famiglia di ritorno dall’Iran, ma anche il Bahrein, la Turchia e l’Afghanistan.

L’epidemia ha un enorme potenziale di destabilizzazione ovunque si diffonda, come dimostrano l’esplosione di rabbia in Cina dopo la morte del medico che aveva lanciato l’allarme o gli accenni di rivolta in Ucraina. Figuriamoci in regioni complesse come l’Iran, dove il virus sembra aver definitamente sancito l’isolamento del paese.

In questo momento è troppo presto per conoscere le conseguenze dell’epidemia, ma evidentemente un virus che non conosce frontiere sta complicando ulteriormente situazioni geopolitiche esplosive.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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