06 marzo 2021 09:48

Dopo essere stato condannato a una dura pena carceraria, Alexej Navalnyj si preparava a entrare in una colonia penale, eredità del Gulag sovietico, quando si è diffusa una notizia che ha sorpreso molte persone: Amnesty International, importante organizzazione per la difesa dei diritti umani, insignita del premio Nobel per la pace, ha deciso di eliminare Navalnyj dalla lista dei “prigionieri di coscienza”. La vicenda merita sicuramente un’analisi.

Amnesty International ha fatto sapere di aver preso questa controversa decisione in risposta a una serie di dichiarazioni fatte in passato dall’attivista russo, da cui emergono posizioni nazionaliste e razziste. Non ci sono dubbi sul fatto che in passato Navalnyj ha mostrato tendenze ultranazionaliste e ha detto cose spiacevoli sui ceceni e su altri popoli “non-russi”. All’inizio di febbraio del 2021 l’Obs ricordava i suoi “scivoloni verbali” e le sue “sbandate demagogiche”. Nel 2007 Navalnyj era apparso in publico in compagnia dello scrittore ultranazionalista Zachar Prilepin, ed era stato espulso dal partito liberale Jabloko per le sue derive nazionaliste.

Qual è la situazione oggi? Il Navalnyj del 2021 non ha sconfessato esplicitamente quello del 2007, ma di sicuro, come ha scritto l’Obs a febbraio, “ha aggiunto dell’acqua al suo vino xenofobo”. In una lunga intervista pubblicata sul sito Le Grand Continent, registrata a dicembre 2020 in Germania prima del ritorno a Mosca e del conseguente arresto, Navalnyj ha fatto delle affermazioni maldestre: “In qualsiasi trasmissione umoristica, russa o statunitense, la metà delle battute ha uno sfondo etnico. È così. Questo tema fa ridere la gente. Ciò che bisogna analizzare con attenzione sono le azioni delle autorità: quello che dice un comico non può essere detto da un politico”.

A quel punto l’intervistatore ha chiesto: ma lei è un politico o un comico?

Risposta: “Io sono un politico, non faccio umorismo, non faccio stand-up dicendo ‘sapete qual è la differenza tra gli osseti e i russo-ucraini?’”.

I punti di fondo
Nella stessa intervista Navalnyj difendeva il federalismo russo che permette a ogni regione di affermarsi (anche se attualmente si fa sentire l’effetto dell’iper-centralizzazione di Putin) e l’identità specifica di ogni gruppo etnico. “Nel nostro paese esisterà sempre una questione nazionale, perché siamo un paese grande e vario”.

La questione sollevata dalle dichiarazioni passate e da quelle attuali è doppia: Navalnyj incarna davvero un’alternativa credibile all’autoritarismo di Vladimir Putin? È per questo che si trova in carcere? La risposta alla prima domanda, evidentemente, non è d’attualità. Ogni volta che ha voluto candidarsi contro Putin, Navalnyj è stato bloccato, e la serie di condanne a suo carico è servita precisamente a impedire che potesse sfidare un presidente che ha appena prolungato il suo regno fino al 2034 con un colpo di bacchetta magica referendaria.

La seconda domanda ha una risposta altrettanto netta: Navalnyj è stato condannato per motivi secondari: il mancato rispetto delle condizioni del suo rilascio per una vicenda precedente (quando in realtà si stava riprendendo in Germania dal tentativo di avvelenamento compiuto dai servizi segreti russi in Siberia) e la diffamazione nei confronti di un ex combattente della seconda guerra mondiale. Niente che lo sminuisca moralmente. Si tratta, evidentemente, di pretesti per eliminare un oppositore diventato il principale avversario del Cremlino, soprattutto attraverso accuse di corruzione rivolte direttamente a Putin.

Chi sostiene l’oppositore nella sua recente battaglia contro Putin sottolinea precisamente questo: la battaglia va oltre la persona di Navalnyj, e a essere in gioco è la natura del potere russo, così come la libertà o l’assenza di libertà concessa alla società civile e a qualsiasi opposizione che non faccia il gioco del sistema, per non parlare del comportamento delle autorità che non esitano a ricorrere all’omicidio. Il ricordo di Boris Nemtsov, politico carismatico ucciso a due passi dal Cremlino nel 2015, è tornato d’attualità la settimana scorsa, in occasione dell’anniversario della sua morte.

Se Nelson Mandela non era un “prigioniero di coscienza”, allora chi può esserlo?

In questo senso la decisione di Amnesty International sembra un’interpretazione sbagliata di un principio sicuramente giusto, ma che nel caso specifico è applicato male. Bermet Talant, giornalista kirghiza, ha evidenziato bene questa contraddizione in una serie di tweet:

“Sono kirghiza, dunque prendo sul personale l’etnonazionalismo e la xenofobia di Navalnyj. Ma la scelta di Amnesty International è sbagliata. Non mi piace l’uso cinico dei criteri liberali occidentali a proposito del razzismo e dell’odio. Navalnyj non è una personalità o un uomo politico occidentale. Noi non possiamo scegliere se sostenerlo in elezioni libere e democratiche. Navalnyj è un uomo politico che è stato avvelenato attraverso un’arma chimica e incarcerato per la sua opposizione al regime di Putin. Il problema non è Navalnyj. Il problema è il regime di Putin. Certo, le vecchie dichiarazioni di Navalnyj sui migranti del Caucaso o dell’Asia Centrale sono terribili, ma sicuramente meno del sostegno accordato da Putin a tutti i criminali, gli autocrati e i dittatori al potere in quelle regioni”.

Per aver scritto queste parole, la ragazza, attualmente legata all’università di Oxford, ha dovuto proteggere il suo profilo Twitter rendendolo “privato”. Oggi criticare Putin online ha un costo, ed è questo che Amnesty International non ha capito quando si è piegata di fronte ai messaggi di protesta, molti dei quali erano sicuramente strumentalizzati dalla propaganda di Mosca, a cominciare dall’emittente Rt che ha lanciato la carica sulle vecchie dichiarazioni di Navalnyj.

Amnesty International avrebbe dovuto ripensare a una delle decisioni più controverse della sua pur gloriosa storia, quella di non riconoscere Nelson Mandela come “prigioniero di coscienza” all’inizio degli anni sessanta, perché aveva incoraggiato la lotta armata contro il regime sudafricano. Ma, per parafrasare la giovane kirghiza, il problema non era Mandela. Il problema era il regime dell’apartheid, che non lasciava nessuna scelta alla maggioranza nera se non quella di avviarsi verso la lotta armata, dopo mezzo secolo di lotta pacifica. Se Nelson Mandela non era un “prigioniero di coscienza”, allora chi può esserlo?

Questa vicenda è collegata anche ai tentennamenti emersi all’estero davanti al colpo di stato in Birmania e alla privazione della libertà per Aung San Suu Kyi. Molti stranieri hanno storto la bocca ricordando che una volta salita al potere Aung San Suu Kyi, in passato premiata con il premio Nobel per la pace, non solo aveva chiuso un occhio davanti alle persecuzioni nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya ma le aveva addirittura difese davanti tribunale penale internazionale. “Bisogna difendere una ‘democrazia’ che lascia perseguitare centinaia di migliaia di suoi abitanti?”, si domandavano diversi internati sui social network.

La questione è la stessa: i birmani che sfilano quotidianamente contro i golpisti militari rischiando la vita, sfoggiano spesso il ritratto di Aung San Suu Kyi, simbolo di una libertà imperfetta che resta preferibile alla dittatura militare. Dall’estero possiamo anche fare gli schizzinosi, ma basta mettersi per cinque minuti al posto dei birmani, rileggendo la loro storia tumultuosa degli ultimi cinquant’anni, per capire la posta in gioco. Il destino dei rohingya ha più possibilità di migliorare con una democrazia priva del dominio militare che con un esercito che ha condotto le persecuzioni.

Certo, sarebbe meglio avere una democrazia birmana che rispetta le sue minoranze, così come sarebbe preferibile che il simbolo dell’opposizione contro Putin fosse un socialdemocratico svedese irreprensibile. Il mondo però è più complicato di così, e merita un po’ di umiltà, di ricerca e di equilibrio tra i princìpi e la realtà. Questo eviterebbe errori disastrosi come quello di Amnesty International con Navalnyj, per cui di sicuro il Cremlino sta ancora ridendo fragorosamente.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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