Arrivati al sesto giorno di tregua tra Israele e Hamas, al momento non ci sono le condizioni perché l’interruzione si trasformi in un cessate il fuoco formale. Sul tavolo mancano proposte serie, anche perché l’accordo non ha permesso di andare oltre la questione degli ostaggi.
Resta da capire quando il governo israeliano deciderà di riprendere le operazioni militari nella Striscia di Gaza. Forse già domani, dopo che stasera scadono i due giorni supplementari di tregua? O dopo un nuovo prolungamento per consentire la liberazione di altri ostaggi, stavolta uomini? I capi della Cia e del Mossad, i servizi di sicurezza statunitense e israeliano, sono in Qatar per lavorare su questa ipotesi.
I vertici israeliani sono sul piede di guerra, decisi a proseguire l’offensiva contro Hamas cominciata dopo l’attacco del 7 ottobre. Il ministro della difesa Yoav Gallant ha ricordato alle sue truppe che la sospensione delle operazioni ha fatto tirare il fiato anche ai combattenti di Hamas, lasciando intendere che la nuova offensiva andrà avanti per almeno due mesi.
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La guerra riprenderà con la stessa forma di prima? Questa è la domanda cruciale. Gallant ha illustrato ai soldati un piano di battaglia che somiglia a quello delle ultime settimane nel nord di Gaza, con un’enorme quantità di bombe sganciate dall’aviazione, seguite dal fuoco d’artiglieria e dai carri armati, prima dell’arrivo dei bulldozer e della fanteria.
Ma lo stato ebraico subisce la pressione degli Stati Uniti, che chiedono di non ripetere ciò che è stato fatto nelle ultime settimane: vittime civili (tra cui migliaia di bambini), città devastate e un esodo della popolazione da nord a sud della Striscia. In privato, i leader occidentali ammettono che Israele è andato ben oltre il suo diritto di difendersi dopo l’attacco di Hamas.
Riproporre la stessa strategia nel sud, dove gli sfollati si sono aggiunti alla popolazione e non esiste alcuna possibilità di fuggire altrove, significa causare un numero enorme di vittime civili. Gli statunitensi non vogliono permetterlo e cercano di convincere il governo e lo stato maggiore israeliani della necessità di cambiare strada.
Gli Stati Uniti sono gli unici ad avere una minima influenza sui leader israeliani, anche grazie al consistente dispiegamento di loro forze militari nel Mediterraneo, che ha impedito l’allargamento regionale del conflitto. Ma non sono nelle condizioni di dettare la strategia a Israele.
Israele non vuole solo distruggere le infrastrutture militari di Hamas e catturare o uccidere i leader del movimento (obiettivo condiviso dagli Stati Uniti), ma anche ristabilire il potere di dissuasione che è stato spazzato via il 7 ottobre. Agli occhi dello stato ebraico, per farlo è inevitabile infliggere una punizione dura alla popolazione palestinese per i crimini commessi da un movimento terroristico.
Nelle prossime ore il gabinetto di guerra israeliano dovrà scegliere tra diverse opzioni: cercare un prolungamento della tregua per ottenere la liberazione di altri ostaggi; riprendere la guerra a oltranza, rischiando di isolare Israele sulla scena internazionale; cambiare strategia e condurre un’operazione mirata, risparmiando il maggior numero possibile di civili. La scelta sarà anche tra la retorica guerrafondaia di una parte del paese e gli inviti alla prudenza che arrivano dall’alleato statunitense.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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