Una dichiarazione del capo di stato maggiore israeliano, il generale Eyal Zamir, ha fatto scalpore. Riferendosi alla linea di demarcazione tra le due zone della Striscia di Gaza, una controllata dall’esercito israeliano e l’altra dove è ammassata la popolazione palestinese, Zamir l’ha chiamata la “nuova frontiera”.

In teoria questa linea che divide verticalmente il territorio in due aree più o meno uguali non è una frontiera, ma solo un elemento del cessate il fuoco in attesa delle prossime fasi del “piano Trump”, approvato due mesi fa in una cerimonia grandiosa a Sharm el Sheikh, in Egitto, alla presenza del presidente degli Stati Uniti.

Da allora è stata messa in atto la prima parte del piano, con la liberazione degli ostaggi israeliani, il ritorno di tutte le salme (tranne una, che ancora manca) e la liberazione di decine di prigionieri palestinesi. Il cessate il fuoco è ancora in vigore nonostante incidenti a volte sanguinari, e gli aiuti umanitari arrivano ai palestinesi, anche se non ai livelli previsti. Il seguito, però, è ancora in sospeso, ed è questo che rende inquietante la dichiarazione del generale.

Se la “linea gialla” (come la chiamano gli israeliani) è una “nuova frontiera”, allora significa che una situazione pensata per essere provvisoria è destinata a durare. Nel frattempo i palestinesi hanno perso metà della Striscia di Gaza, tra l’altro la zona più fertile.

Le parole di Zamir sono tanto più preoccupanti se consideriamo che la situazione provvisoria ha permesso agli islamisti di Hamas di riprendere il controllo della zona popolata dai palestinesi. Anche se indebolita, l’organizzazione continua a dettare legge, gestendo una polizia propria e controllando la vita quotidiana di due milioni di persone, nella precarietà di un territorio devastato dove la vita non può minimamente tornare alla normalità.

La seconda fase del “piano Trump”, che evidentemente non è pronta a partire, prevede l’invio di una forza internazionale, il disarmo di Hamas, la formazione di una commissione di tecnocrati palestinesi e di un’autorità politica guidata dall’ex primo ministro britannico Tony Blair e da Donald Trump in persona.

Il piano è irrealistico e il negoziato in corso non permette di sbloccarlo. Prendiamo l’esempio della forza internazionale: quale paese accetterà di inviare i suoi uomini in una zona di guerra per disarmare un gruppo determinato come Hamas? L’Egitto ritiene che la missione della forza internazionale dovrebbe essere quella di “supervisionare la pace”, non d’imporla. In effetti è difficile immaginare un soldato egiziano, o giordano, sparare sugli uomini di Hamas quando l’opinione pubblica araba è infiammata da due anni di bombardamenti israeliani.

Il problema è che nessuno vuole fare un passo avanti. Israele non intende accettare un’evoluzione che possa prefigurare una soluzione politica, dunque scarta la possibilità di coinvolgere l’Autorità palestinese. Hamas, piuttosto che sparire, si accontenta di una situazione che gli permette di controllare una popolazione disperata. Donald Trump, intanto, ha ottenuto i benefici del piano che porta il suo nome e si disinteressa del resto, mentre il mondo arabo non ha i mezzi né la volontà per imporre una soluzione politica.

Gaza, oggi, ha tutte le caratteristiche di una catastrofe annunciata: una nuova divisione territoriale per i palestinesi, aiuti umanitari col contagocce per evitare il peggio e uno stallo politico. In attesa della prossima, inevitabile crisi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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