04 agosto 2021 13:05

Un tempo era l’eccezione che, tra gli stati arabi e nonostante la guerra civile e i costanti disordini politici, riusciva comunque a salvaguardare il pluralismo e le libertà personali. Ma adesso il Libano appare simile a una decina di altri paesi mediorientali, soggetto a un declino lento e apparentemente inesorabile verso privazioni e autoritarismo.

Mentre un numero sempre più alto di libanesi deve affrontare povertà, standard di vita più bassi e una riduzione dei diritti personali, chi governa ha adottato metodi più autoritari per rimanere al potere, rifiutando costantemente le riforme e condannando il paese a ulteriori sofferenze.

La triste trasformazione del Libano negli ultimi tre anni è significativa per almeno due motivi. Il primo è che il suo sistema pluralistico, che ha permesso a settori come istruzione, mezzi d’informazione, affari e cultura di prosperare prima e dopo la guerra civile, durata quindici anni, avevano anche contribuito allo sviluppo economico e sociale di molti altri paesi arabi nello stesso periodo. Dal punto di vista sanitario, dell’istruzione, dell’impresa privata, questi altri paesi avevano tratto beneficio dall’iniziativa e dalle abilità del Libano. Ma tutto questo oggi è in declino e potrebbero scomparire in futuro, con il crollo dell’economia del paese.

Il secondo motivo è che la discesa del Libano nell’impoverimento e in un sistema di governo securitario sancisce il quasi totale controllo sul mondo politico arabo esercitato da un club di autocrati, generali e pericolosi giovani membri di famiglie reali.

Diritti politici sequestrati
Il Libano si è velocemente trasformato nell’ennesimo paese arabo in difficoltà e impoverito: i suoi cittadini sono preda di una pressione socioeconomica sempre più forte, mentre i loro diritti politici sono sequestrati dalla mano pesante di governi nervosi, che sembrano capaci di mantenere la stabilità sociale solo attraverso battaglioni di poliziotti, soldati e sgherri del regime in borghese, armati di manganelli e gas lacrimogeni.

Una delle nuove e preferite tecniche del regime libanese contro i suoi oppositori consiste nel convocare i cittadini perché siano interrogati dai servizi di sicurezza. O, in alcuni casi, arrestare le persone e poi farle processare in tribunale per presunto “danneggiamento dello stato” attraverso il loro attivismo o i loro post sui social network. È un fatto nuovo per il Libano, ma si tratta di una pratica comune nell’ultimo decennio in Bahrein, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Marocco, Algeria, Sudan, Iraq e Giordania.

La repressione poliziesca delle manifestazioni, fin troppo comune in paesi come l’Egitto, una volta era rara in Libano o in Palestina

Il declino del Libano riflette quello della Palestina, dove l’inetta e sempre più autoritaria Autorità palestinese – che risponde più a Israele che al suo stesso popolo – arresta o malmena i manifestanti che invitano il presidente Mahmoud Abbas, il cui mandato originale avrebbe dovuto concludersi nel 2009, a dimettersi. Il recente caso del giornalista palestinese Nizar Banat, morto mentre era nelle mani della polizia palestinese, ha scatenato importanti manifestazioni di piazza in tutta la Cisgiordania, a cui il governo di Abbas ha risposto con una polizia armata fino ai denti e ulteriori sgherri in borghese.

Questi episodi, fin troppo comuni in paesi come l’Egitto, erano raramente accaduti prima in Libano o in Palestina. Adesso che una simile repressione è una realtà anche per loro, palestinesi e libanesi sono doppiamente infuriati a causa della loro impotenza nei confronti delle forze di sicurezza.

Il passato parla chiaro
Tutto questo si aggiunge inoltre alla lista di casi, documentati da tempo dalle associazioni internazionali e locali di difesa dei diritti umani, di manifestanti civili del mondo arabo intimiditi, arrestati, incarcerati o addirittura uccisi semplicemente per aver richiesto un miglior sistema di governo, che protegga i loro diritti sociali, economici e politici: in particolare il diritto alla libertà d’espressione.

Per anni il Libano è stato un’eccezione in una regione dove troppi paesi sono segnati da un’economia al collasso, cittadini poveri e governi violenti. Adesso che il Libano si è unito a questo triste club, è evidente una particolare caratteristica del sistema politico arabo contemporaneo, emersa un secolo fa grazie alle potenze coloniali europee e alle élite locali da loro protette: tutta la regione sembra spesso muoversi all’unisono.

Questo riflette probabilmente il fatto che la maggior parte dei cittadini condivide gli stessi sentimenti di speranza o frustrazione, poiché sembrano essere governati da sistemi politici che non hanno mai sinceramente adottato una democrazia pluralistica e non hanno mai risposto delle loro azioni.

Tra il 1980 e il 2000 la maggior parte dei paesi arabi ha vissuto sviluppi economici alterni

Il loro operato, in questo senso, parla chiaro. La lotta comune per l’indipendenza dal dominio coloniale all’inizio del ventesimo secolo ha attraversato la maggior parte delle società a maggioranza araba. Poi un interesse condiviso nei confronti dello sviluppo nazionale e della costruzione dello stato ha segnato tutti i paesi arabi nel periodo compreso all’incirca tra il 1930 e il 1960. All’inizio degli anni settanta il boom petrolifero ha finanziato una corsa comune verso ingenti spese, sia per infrastrutture utili sia per iniziative costosissime, frutto di corruzione e inutili.

Sono seguiti due decenni, all’incirca tra il 1980 e il 2000, nei quali la maggior parte dei paesi arabi ha vissuto sviluppi economici alterni, riflesso delle fluttuazioni delle entrate petrolifere e del gas, e una corruzione sempre più diffusa, in paesi che non hanno mai creato delle economie produttive ed equilibrate. Allo stesso tempo alcuni stati come Iraq, Siria, Tunisia, Sudan e Libia hanno avvertito la sofferenza dell’essere governati da dittature militari rette da un solo uomo, e che si sono dimostrate incompetenti su tutti i piani.

Di conseguenza, alla fine del 2010 e all’inizio del 2011, sono esplose ribellioni spontanee di cittadini in metà della regione. Alcune di queste sono riuscite a rovesciare i despoti – in Tunisia e in Egitto – mentre altre si sono trasformate in guerre civili – in Siria, in Libia e poi in Yemen – che hanno rapidamente generato un coinvolgimento regionale e internazionale. Nonostante vari intoppi, questa ondata di sollevamenti e rivoluzioni ha ancora delle ricadute – al di fuori dei piccoli emirati del golfo Persico ricchi di petrolio – perché la maggioranza dei cittadini ha perso la speranza di vivere una vita decente o di poter promettere alcunché per il futuro dei propri figli.

Sudan, Algeria e Iraq – e ora anche il Libano – hanno tutti vissuto due anni o più di protesta popolare ininterrotta. Ma nella maggior parte dei casi non ci sono stati segnali del fatto che le élite vogliano cedere il potere.

Un paese in ginocchio
A differenza di altri stati arabi che hanno vissuto queste ondate di protesta, il Libano non aveva una tradizione di governo centrale che monopolizza il potere e domina tutti gli aspetti della vita nazionale: politica, economia, sicurezza, mezzi d’informazione e perfino la cultura popolare e le arti. Il Libano è stato invece messo in ginocchio dal persistere dell’attuale modello settario di condivisione del potere che ha governato il paese dalla fine della guerra civile nel 1990. Più che un sistema di condivisione del potere, si tratta in realtà un sistema di occupazione da parte di vari signori della guerra, sostenuti dal singolo attore più forte del paese: Hezbollah. Negli ultimi anni i leader settari del Libano hanno collettivamente copiato vari altri stati arabi, le cui élite profondamente radicate non permettono alcuna seria partecipazione politica e custodiscono con zelo i propri interessi.

Il tutto ha provocato molteplici crisi bancarie, valutarie e fiscali che hanno fatto della cultura e dell’economia libanese, un tempo vibrante, l’ombra di sé stessa. Le élite di Beirut che rifiutano di muoversi di fronte alle proteste e alle denunce della popolazione – proprio come le élite di Baghdad o Algeri – hanno rapinato il Libano e distrutto le sue infrastrutture. La prova, nelle strade di Beirut, sono i mucchi di spazzatura non raccolta, le interruzioni di corrente e le rovine del porto. Quasi un anno dopo la devastante esplosionedel 4 agosto 2020, le indagini dei giudici e dei procuratori libanesi, i quali hanno identificato i funzionari da processare in tribunale, sono state ripetutamente bloccate, ostacolate o ritardate da personaggi legati agli ambienti della sicurezza, della presidenza, della magistratura e del parlamento. Negli ultimi due anni i prezzi in quasi tutto il paese sono triplicati, mentre il valore della moneta libanese continua a scendere ogni settimana.

Circa il 60 per cento dei libanesi vive oggi in povertà, il che avvicina il paese alla media di circa il 70 per cento dei cittadini del mondo arabo che sono poveri o esposti alla povertà, secondo i dati delle Nazioni Unite. A immagine delle tendenze regionali, i libanesi poveri continuano a protestare pubblicamente, in maniera dura e partecipata. Al punto che esibiscono ormai dei cappi come simbolo del loro desiderio di impiccare tutti i leader. I ricchi e i possessori di passaporti stranieri emigrano, ma la maggioranza non può farlo. Soffre e ribolle di rabbia e di varie altre emozioni come la paura, l’umiliazione, l’impotenza e, in ultima istanza, la disumanizzazione per mano dei loro stessi dirigenti.

Manifestanti e cittadini comuni continuano a cercare una via d’uscita, non essendo stati in grado, attraverso proteste o pressioni straniere, di strappare alcuna concessione a chi è al potere. Le vittorie dell’opposizione e dei riformisti nelle recenti elezioni di associazioni professionali e sindacati hanno spinto molti a organizzarsi per le elezioni parlamentari e presidenziali del 2022, nella speranza di cambiare governo. Ma sono anche fin troppo consapevoli che quegli stessi governanti possono semplicemente rimandare le elezioni, come hanno fatto in passato.

Nel frattempo è emerso un forte spirito di solidarietà e di mutuo soccorso, con i libanesi in tutto il paese che si aiutano l’un l’altro come possono: condividendo cibo, acqua, medicine, elettricità, benzina e accoglienza. Molti lo considerano un esempio di come un governo dignitoso e degno di tal nome dovrebbe operare. Ma altri temono che soddisfacendo alcuni bisogni urgenti ora, questa solidarietà permetterà semplicemente al governo di tirarsi fuori dai guai, rimandando così qualsiasi riforma.

Il Libano, come molte altre società arabe contemporanee, si trova in una nuova e sconosciuta situazione nella quale la vita, per la maggior parte dei suoi cittadini, è all’insegna di una lotta quotidiana per cose basilari come il cibo, senza che all’orizzonte si veda alcuna svolta. Agli occhi della maggior parte dei libanesi il resto del mondo sembra indifferente, e a volte addirittura pare sostenere alcuni dei leader settari dell’oligarchia al potere, responsabili del collasso.

Come nella maggioranza delle altre società arabe, i libanesi maledicono la classe politica che li ha fatti soffrire così tanto, e tirano avanti come possono. Continuano a cercare la parola magica che un giorno aprirà loro la porta verso un futuro migliore. Sono convinti di poter costruire, e che costruiranno, una cittadinanza araba capace di definire i propri valori, diritti e politiche nazionali: per la prima volta, forse, dalla nascita del sistema statale arabo contemporaneo un secolo fa.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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