26 gennaio 2015 17:40

Io scrivo, leggo, parlo. Lavoro con le parole. Che esperienza ho della loro violenza? A che punto è il conflitto nel linguaggio? Nei prossimi paragrafi farò qualche esempio di violenza subìta dalle parole, o fatta con le parole. Sono sette esempi sparsi, presi dall’attualità, ogni punto è autonomo, staccato dagli altri. Ma forse possono dare un contributo alla descrizione del paesaggio attuale.

1. Violenza nei media: le finte scuse

C’è stata la macchina del fango, la maldicenza organizzata. Ora va di moda la finta ritrattazione. “Chiedo scusa se X si è sentito offeso” è diventata una formula su mezzi d’informazione e social network. Provate a verificare in rete quante volte ricorre. La usano telegiornalisti, boss mafiosi, politici (il più recente è stato l’ineffabile Gasparri, verso Vanessa Marzullo e Greta Ramelli liberate dai rapitori in Siria). Non “per avere offeso”, ma “se si è ritenuto offeso”, “se si è sentito offeso”. Chi offende non riconosce l’oggettività del suo insulto. Chiede scusa non per ciò che ha detto, ma solo per il sentimento che ha causato: lasciando intendere che la frase incriminata, in sé, non era offensiva. È chi si è sentito offeso che è troppo sensibile, troppo permaloso, perché ha sovraccaricato il senso di quelle parole.

Spesso rincarano le scuse aggiungendo “non era mia intenzione offendere”. Si invoca l’innocenza delle intenzioni. Ma il linguaggio, di per sé, non può incorporare le intenzioni. Una frase o è offensiva o non lo è, a prescindere dalle intenzioni di chi l’ha pronunciata. Queste non sono vere scuse: sono solo un’autoassoluzione, un dispiacere cerimoniale per lo stato d’animo di chi ci è rimasto male. Non riconosco di avere fatto una cattiveria né ritiro l’offesa. Che rimane lì, perfettamente intatta, in tutta la sua violenza. Continua a leggere, coglione. Chiedo scusa se qualcuno si è sentito offeso.

2. Violenza sulle parole: opinioni vaporose

La rete ha dato accesso all’opinione pubblica, ma l’ha anche disinnescata. La possibilità di commentare qualunque cosa senza firmarsi ha fatto evaporare la sostanza delle opinioni. Valutare un politico, una legge, un albergo, un film senza firmarsi indebolisce i giudizi. Nessuno mi garantisce che a giudicare quella trattoria sia la moglie del cuoco, o il padrone della pizzeria di fronte. Non posso capire se sono provocazioni insincere. Non posso verificare se chi le esprime può vantare una certa coerenza fra ciò che dice e ciò che fa. Si fa violenza alle proprie opinioni, impedendo che diventino adulte: la rete è un giardino d’infanzia dove si gioca ad avere un’opinione, le parole sono costrette a restare bambine.

A questo punto bisognerebbe mettere un link, possibilmente prendendo un esempio dalla cronaca di questi giorni, ma l’esempio migliore sei tu: tu che mi leggi, sì, se per caso commenti in giro in rete con uno pseudonimo, stai stroncando la forza delle tue frasi, le rendi politicamente incisive quanto un video di gattini su YouTube.

3. Violenza sui giornalisti: le querele

Gli strumenti legali sono stati tranquillamente teorizzati dai politici come armi per zittire chi lavora con le parole. “I giornalisti bisogna denunciarli, perché tra l’altro non hanno neanche i soldi per pagarsi l’avvocato”, è una frase dell’ex europarlamentare Lia Sartori, riportata nel libro I padroni del Veneto dal giornalista Renzo Mazzaro. Sull’ex sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, Mazzaro scrive: “È stato definito la querela più veloce del Nordest, perché da sindaco e vicesindaco ne ha firmate quasi un centinaio. Il che è incomprensibile: lo spessore del linguaggio che usa dovrebbe indurlo per lo meno ad accettare il combattimento ad armi pari. Invece non sopporta negli altri il diritto all’esagerazione che lui si prende sistematicamente. Va in cerca del pelo nell’uovo come un azzeccagarbugli, zittisce gli oppositori, è sempre in lite con i giornalisti che ha ribattezzato ‘le pennette all’arrabbiata’. ‘Me ne cibo tutti i giorni’”.

Michel Houellebecq durante una conferenza stampa dopo aver vinto il premio Goncourt, l’8 novembre 2010, a Parigi. (Dominique Charriau, WireImage/Getty Images)

L’altro giorno stavo parlando con un giornalista d’inchiesta romano, gli raccontavo della situazione criminale nella mia città. Lui mi ha detto: “Nella tua regione c’è una situazione molto dura per noi. Io ho fatto inchieste in tutta Italia, senza troppi problemi. Ma appena ho ficcato il naso in Veneto mi sono arrivate quattordici querele in poche settimane. Quattordici!”.

4. Violenza sulle parole: amputazione

La rete ha permesso a tutti di accedere al discorso pubblico. Fino a pochi anni fa c’era solo la rubrica di lettere al direttore dei giornali locali. Ora chiunque può fare un’inchiesta e metterla in circolazione. Però la rete, per la sua stessa impostazione tecnica, permette l’anonimato. Che certamente è un modo di non lasciarsi sfruttare dalle indagini di mercato e, nelle società repressive, di fare politica senza esporsi troppo rischiosamente. Ma nelle nostre società, denunciare un’ingiustizia senza firmarsi significa disarmare le parole. Equivale ad amputarle.

Le parole anonime non possono più compiere azioni. Normalmente, infatti, con le parole io posso fare cose: posso fare una promessa, fare una denuncia, fare un giuramento, stringere un patto, dare un giudizio, dare un ordine, dare l’esempio. Ma per fare queste cose con le parole è necessario essere presenti di persona, oppure firmarsi. Molte parole in rete sono state amputate della possibilità di fare delle cose, di compiere azioni quando nessuno le fonda sulla responsabilità del suo nome e cognome. Hanno subìto violenza. Sono state condannate alla morte civile. Non possono più esercitare i loro diritti. Staccate dal collegamento con qualcuno che, attraverso il suo nome e cognome, si faccia carico di quella promessa, denuncia, eccetera, le parole galleggiano disancorate, come mongolfiere in balìa del vento.

5. Sospensione letteraria della violenza: i romanzi

Senza esercizio ginnico, ci si atrofizza. Senza esercizi spirituali, ci si incanaglisce (una passeggiata è contemporaneamente un esercizio ginnico e spirituale). E anche i giochi, l’educazione, gli spettacoli possono essere considerati degli esercizi morali. Gli esercizi mantengono in buona salute la coscienza, la rinvigoriscono. Con la letteratura, le parole si sono inventate uno spazio separato, dove poter fare esercizi. I romanzi sono luoghi di esercizio delle parole.

Che cos’altro significa la dicitura: “Questo è un romanzo, ogni riferimento a fatti e personaggi esistenti è casuale eccetera”, se non che “qui dentro le parole stanno facendo esercizi, non prendetele alla lettera, sconnettetele per un po’ dal riferimento alle cose che esistono”? La letteratura è un posto dove le parole si oggettivano: vanno scontornate dallo sfondo in cui vivono solitamente, bisogna tagliare i loro legami con l’esterno. Non debbono indicare per forza quella persona lì, quel fatto accaduto davvero. Non hanno l’obbligo di rappresentare le idee di chi le ha scritte. Possono fare esercizi morali di colpevolezza, di redenzione, esercizi politici di paradosso, di catastrofe.

Nei romanzi le parole si prendono un po’ di respiro dalle mansioni di tutti i giorni, per oggettivare la violenza che compiono di solito. Tranne in un caso: quando una coincidenza inaudita – per esempio una strage e la pubblicazione di un romanzo – fa revocare questo diritto all’esercizio. La sofisticata allegoria romanzesca viene spazzata via, tutto si irrigidisce nella pretesa di un riferimento diretto. L’attualità si mette a gridare: “Ti stavi riferendo a me!”. L’emergenza instaura uno stato d’eccezione, saltano le garanzie costituzionali delle parole, il loro diritto a non riferirsi a una situazione precisa. È quello che ha subìto Sottomissione, l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, che immagina la Francia governata da un presidente islamico.

6. Violenza sulle parole: sfondamento

La rete ha inventato il link. La prima parte della mia vita io l’ho vissuta in un’epoca in cui le parole erano vicoli ciechi. Erano tunnel che non sfociavano da nessuna parte, se non nei miei concetti mentali, nelle immaginazioni personali. Leggevo la parola “fuoco” e nella mia mente si dimenava il fantasma di una fiamma. Da una ventina d’anni invece faccio clic sulla parola “fuoco” e all’improvviso mi ritrovo in tutt’altro ambiente, in mezzo a un discorso completamente diverso. Leggere non significa più solamente andare a fondo di una parola, là dove inizia il mio lavoro di concettualizzazione e di immaginazione. Inciampo in tombini e botole, sprofondo in gorghi e valvole. Le parole sono state trapanate, sfondate, spalancate con i link.

Tra l’altro, questo provoca un effetto di rimbalzo sui testi senza link, che si trovano ancora sui supporti tradizionali: quando leggo parole stampate su un foglio (ma anche in un ebook), ormai mi stupisco che non ce ne sia nessuna oltrepassabile. Nessun varco, nessuna soglia che mi porti altrove. Il discorso è chiuso in sé stesso. Ogni giornale, ogni libro è diventato un palombaro che parla sigillato nel suo scafandro. In sé non è né un bene né un male. Ma la cosa che mi dà da pensare è che forse questa situazione tecnologica ci può fornire un’inaspettata definizione dei romanzi, delle poesie e della letteratura in generale (a parte qualche eccezione, ovviamente). Che cos’è la letteratura? È quella roba scritta da strani tipi che si ostinano a non mettere link nelle loro parole.

7. Riattivazione letteraria della violenza: l’autofiction

C’è una categoria speciale di romanzi che ha avuto fortuna in questi anni. È l’autofiction, cioè l’autobiografia romanzata. Libri in cui il protagonista è l’autore che fa di sé un personaggio, raccontando quello che gli è successo: il suo passato, ma anche cose recenti. Fa l’inviato speciale nella propria vita. La racconta camuffandola un po’, ma non troppo. In questo modo fa violenza soprattutto a sé stesso. Parla male di sé. Si denigra. Si mette in scena in situazioni disdicevoli. Dà conto di pensieri e impulsi indecorosi. Ma il punto è che, a differenza dei romanzi, nell’autofiction i “fatti e personaggi” probabilmente non sono del tutto inventati. Le parole si riferiscono a persone esistenti, reali: vive. Amici, parenti, colleghi, vicini di casa. La brutalità del resoconto non è fantasiosa, è effettiva.

Karl Ove Knausgård a Ystad, in Svezia, il 3 ottobre 2013. (Joachim Ladefoged, VII/Corbis)

La controprova sono le conseguenze nella vita degli autori di autofiction. Il più celebre oggi, il norvegese Karl Ove Knausgård, non ha ancora cinquant’anni e ha già pubblicato migliaia di pagine sulla sua vita (il volume più recente tradotto in italiano è La morte del padre). Non sempre gli è andata liscia: parenti e amici non ci stanno, non accettano il modo in cui sono stati descritti. Uno zio lo ha denunciato, una ex si è vendicata con un documentario alla radio su di lui.

L’autofiction è ambigua, i riferimenti non sono più in sospeso come nei romanzi. Ogni parola che fa un riferimento reale a una persona viva è violenta. La descrizione impietosa di sé coinvolge anche gli altri. Che però, bisogna dirlo, spesso sono dei caratterini: insofferenti a ogni tipo di descrizione, allergici a qualunque aggettivo. Un giornalista mi raccontò che aveva scritto un articolo su un incendio, dicendo che sul luogo, fra i primi soccorritori, era arrivata “la pimpante signora X Y”. Ebbene, il giorno dopo irrompe in redazione la signora X Y, incazzatissima con il giornalista: “Come si permette? Pimpante sarà sua sorella!”. Però non l’ha ucciso a colpi di kalashnikov.

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