04 dicembre 2021 08:48

È venerdì sera e sto guardando Under the volcano (Sotto il vulcano), il documentario sugli Air studios di Montserrat. La struttura è la versione caraibica dell’omonimo (e storico) studio di registrazione di Londra, anche questa costruita dall’ex produttore dei Beatles George Martin. L’inaugurazione è avvenuta nel 1979, per offrire “tutte le attrezzature tecniche del suo omologo britannico ma con i vantaggi di un luogo esotico”.

All’epoca, infatti, una località del genere – una lussureggiante e montagnosa isola delle Piccole Antille, con tanto di baie riparate e spiagge sabbiose – sembrava congeniale al lusso tipico di un certo filone del pop degli anni ottanta. Basti pensare, per esempio, ai Duran Duran sul loro yacht nel video di Rio, del 1982.

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Ma il film comincia dalla fine della storia. Dopo l’uragano Hugo nel 1989 e le grandi eruzioni vulcaniche negli anni novanta, la struttura è stata chiusa e oggi è in rovina, insieme ad altri edifici abbandonati del posto, fra tetti che perdono e pavimenti danneggiati. È inquietante: sembra uno di quei luoghi una volta puliti, asciutti e confortevoli in cui però col tempo la natura ha preso il sopravvento. Mi sembra di vedere le foto dei palazzi di Bishops Avenue a Hampstead, nel nord di Londra, quella zona soprannominata “Billionaire’s row”, “via dei milionari”, con gli appartamenti trascurati dai loro proprietari che vivono all’estero.

Lì le case vuote hanno una strana, oscura bellezza. Le grandi scale sono coperte di muschio, tra le piastrelle del pavimento distrutte crescono felci, le fontane asciutte sono ricoperte di licheni dorati. Ci sono piscine vuote, sale da ballo fatiscenti, tappeti marci e vernice scrostata. Il viale è stato descritto come “una delle terre desolate più costose del mondo”.

C’è qualcosa in questo tipo di rovine che mi fa rabbrividire: ci ricordano quanto siamo effimeri. Anche i nostri edifici più belli e robusti sono temporanei. L’opulenza di cui ci circondiamo non durerà. Penso alla poesia di Percy Bysshe Shelley, Ozymandias, e all’orrore di quel deserto agghiacciante: “Intorno alle rovine / di quel rudere colossale, spoglie e sterminate / le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine”. E, ovviamente, al suo verso più famoso: “Ammirate, voi potenti, le mie opere, e disperate!”.

Tutto questo mi riporta al film sugli Air studios di Montserrat. “Guardate davvero le mie opere”, ho pensato a mano a mano che andava avanti il film, cominciando a disperarmi. Qualunque tragedia ci sia nel destino di quella struttura, infatti, forse la sua tragedia più grande è il non aver mai mantenuto le proprie promesse.

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Ci sono documentari sulla musica che ti fanno pensare: vorrei essere stato in quella stanza. Ma non è questo il caso. In Under the volcano, in mezzo a tutto quel lusso c’è una curiosa desolazione: l’assenza di quell’ineffabile vibrazione che trasforma alcuni studi di registrazione in luoghi di pellegrinaggio. Sullo schermo si vedono persone che all’epoca avevano molti soldi, ma che non sembra stessero davvero vivendo il loro picco creativo.

È come una dimostrazione di ciò che è andato storto negli anni ottanta. Da una parte, l’enfasi eccessiva sulla precisione tecnica portò i membri dei diversi gruppi passati di lì a registrare in spazi separati. Dall’altra, l’abbondanza di denaro li spinse a sprecare tempo, a perdere il contatto con la realtà e soprattutto a dimenticare perché avessero fondato una band. Ecco: il meglio degli anni settanta era finito, e il meglio degli anni ottanta stava succedendo altrove, lontano dagli Air studios di Montserrat.

E sì, i Dire Straits ci produssero Brothers in arms. Che, è vero, vendette a palate. Ma fu odiato dalla critica inglese. Poi nel documentario appaiono all’improvviso anche Paul McCartney e Stevie Wonder, ma non certo – figuriamoci – per suonare Ebony and ivory. Gli stessi Rolling Stones ci registrarono Steel wheels, Elton John Too low for zero. Insomma, una tradizione un po’ mediocre.

Le persone intervistate nel film ovviamente non sarebbero d’accordo con tutto ciò, visto che sullo schermo si lasciano andare a frasi come “la musica è l’architettura liquida delle emozioni”. Ma a me il tutto ha lasciato una sensazione di piattezza emotiva. Anche e soprattutto perché pochissimi gruppi sembravano divertirsi sinceramente agli Air studios di Montserrat. I Duran Duran, per esempio, si sentivano separati dal loro naturale ambiente metropolitano, mentre i membri dei Police si odiavano a vicenda. Come racconta Stewart Copeland: “Eravamo in questa specie di paradiso, che presto abbiamo trasformato in un inferno vivente”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale New Statesman.

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