23 ottobre 2017 13:21

Le notizie arrivano come un uragano. Le forze irachene conquistano Kirkuk, mentre le Forze democratiche siriane si impossessano di Raqqa. Ai Weiwei realizza un film sui profughi, mentre i disperati continuano a fuggire attraverso il deserto del Sahara e il confine che separa il Bangladesh dalla Birmania. A Puerto Rico manca ancora la corrente elettrica. Un ciclone colpisce l’Irlanda. Dei soldati americani muoiono in Niger. Un ordigno devastante provoca centinaia di vittime a Mogadiscio. I taliban attaccano Paktia e Ghazni, in Afghanistan.

Cresce la paura per una possibile nuova guerra illegale degli americani, questa volta contro l’Iran o la Corea del Nord, o entrambi.

È difficile da mandare giù. Sembra esserci troppo dolore, troppa tristezza, troppa incapacità di trasformare queste storie da tragedia in speranza.

La guerra e l’illusione della pace
In teoria, la sconfitta del gruppo Stato islamico (Is) a Raqqa dovrebbe essere motivo di gioia. Ma anche in questo caso, chi ha seguito a fondo la vicenda esita prima di festeggiare. La “vittoria” si contrappone agli eventi di Kirkuk, una prova che il periodo successivo alla sconfitta dell’Is sarà complicato quanto la guerra contro il gruppo jihadista. I confini si stanno spostando, gli stati consolidano i loro territori.

L’esercito di Damasco ha intenzione di avanzare a nord verso Raqqa e scontrarsi con le Forze democratiche siriane? L’esercito turco ha intenzione di muoversi a sud per stroncare le ambizioni dei curdi, che sono in maggioranza nelle Forze democratiche siriane? La questione curda, a lungo soppressa, causerà la prossima esplosione nella fragile Asia occidentale?

Cosa possiamo pensare delle morti in Somalia e in Afghanistan, sconvolgenti nei numeri e sconvolgenti perché non hanno quasi scalfito le coscienze dell’occidente? È difficile per l’occidente riconoscere l’umanità dei morti somali e afgani. I loro nomi non sono stati comunicati, le loro vite sono difficili da capire. È come se ci fosse un muro a separare il genere umano, da una parte quelli che vivono in zone di guerra e tragedia e dall’altra quelli che vivono nell’illusione della pace, in paesi che producono le condizioni della guerra ma negano le proprie responsabilità. È facile per l’opinione pubblica occidentale ignorare le bombe in Afghanistan, un paese recentemente devastato da una guerra voluta dall’occidente.

Non ci saranno mai hashtag per questi afgani e somali, e le loro bandiere non sventoleranno da nessuna parte

È ancora più facile ignorare la Somalia, la cui deriva nelle mani dei signori della guerra è strettamente legata alla pesca selvaggia dei pescherecci delle multinazionali nelle acque territoriali somale e agli interventi delle potenze straniere (inclusi gli Stati Uniti). Questa complicità non ha alcuna importanza. Ci limitiamo a registrare che ci sono stati morti, con passività, sottintendendo che da quelle parti ci saranno sempre morti e che ci sono problemi culturali che quella gente deve risolvere da sola.

Non ci saranno mai hashtag per questi afgani e somali, e le loro bandiere non sventoleranno da nessuna parte, anche perché quasi nessuno sa che aspetto abbiano. Per un consumatore delle notizie in occidente è più facile immaginarsi in un bar di Parigi o sulle Ramblas. Un attacco contro queste città lo colpisce nel vivo, perché riflette l’umanità da un lato del muro. È più difficile immaginarsi nel centro di Mogadiscio o nel distretto amministrativo di Ghazni, dall’altra parte della barriera di divisione dell’umanità.

E cosa dire della crisi dei profughi, il cui arrivo continuerà a tormentare l’occidente? Anche loro sono corpi anonimi, ammassati insieme dalla disperazione. C’è una certa eternità nella poesia di Salah Jaheen su un rifugiato palestinese: “La sua sofferenza incassata tra le costole/ appassito e affamato/ seduto senza niente da fare”.

Ma questa inutilità non basta. Jaheen osserva i profughi e scrive: “E in fila ci sono migliaia di famiglie/ e cinquecentomila dolori”. Il dolore è ciò che colpisce il poeta, ma c’è di più, come sa chiunque abbia scritto un articolo sui profughi. C’è speranza, anticipazione, perché se non ci fossero il profugo non sarebbe mai partito.

La migrazione e la guerra sono fatti incontestabili. Ma sono sconcertanti i motivi delle migrazioni e delle guerre. Conviene sempre dare la colpa alla cultura: sciiti e sunniti non vanno d’accordo, i turchi odiano i curdi, l’islam ha un’anima violenta che non può essere arginata. Sono spiegazioni razziste per una realtà che dovrebbe essere compresa non solo attraverso le descrizioni culturali, ma anche attraverso l’analisi di altri fattori che però sono ignorati.

Atto d’accusa inascoltato
Il 16 ottobre la Fao ha festeggiato la sua fondazione nel 1945 con la Giornata mondiale del cibo. Il mese scorso l’organizzazione ha pubblicato un rapporto inquietante che ha ricevuto scarsa attenzione. Nel documento la Fao comunica che la fame al livello globale è in aumento per la prima volta nell’ultimo decennio: 815 milioni di persone soffrono la fame, ovvero più del 10 per cento della popolazione globale. Il numero è aumentato di 38 milioni rispetto all’anno precedente. Il World food program delle Nazioni Unite ha definito le conclusioni di questo rapporto “un atto d’accusa nei confronti dell’umanità”.

All’interno del rapporto si trova un dato particolarmente significativo: 489 milioni di persone che non hanno un adeguato accesso al cibo o sono denutrite vivono in paesi colpiti da conflitti armati. Questo significa che la maggioranza di chi soffre la fame vive in zone di guerra. Tre quarti dei bambini che sono sottosviluppati all’età di 5 anni o soffrono di malnutrizione acuta vivono nelle stesse aree, in gran parte situate nell’Asia occidentale, nel Nordafrica e nell’Asia centrale, in una striscia di terra arida che è particolarmente suscettibile agli effetti del cambiamento climatico, oltre che della guerra apparentemente infinita.

La guerra produce fame e la fame a sua volta produce guerra

La Fao ritiene che l’aumento della fame nel mondo sia “largamente dovuto alla proliferazione di conflitti violenti e disastri climatici”. In Iraq, per esempio, i due distretti di Ninewa e Salah al-Din producevano un terzo del grano del paese e il 40 per cento dell’orzo. Oggi, a causa della guerra illegale scatenata dagli Stati Uniti contro l’Iraq nel 2003, la produzione di cibo nella regione è fortemente compromessa. Nel distretto di Ninewa il 68 per cento della terra utilizzata per la coltivazione del grano è stato distrutto, mentre il 57 per cento della terra dedicata all’orzo è inutilizzabile. Le carestie in Sud Sudan e in Yemen sono conseguenze dirette della guerra. La Somalia patisce la fame a causa della guerra e della siccità, con sei milioni di persone (su una popolazione di 14 milioni) che hanno estremo bisogno di cibo. L’avanzata di Boko haram nella Nigeria del nord e attorno al bacino del lago Ciad è collegata alla desertificazione della regione.

La guerra produce fame e la fame a sua volta produce guerra. La pressione esercitata sull’agricoltura mondiale dal cambiamento climatico è un fatto riconosciuto. Ma non basta. Le aziende dell’agrobusiness, avvantaggiate dai diritti sulla proprietà intellettuale, hanno colpito senza pietà i piccoli agricoltori. Diversi studi dimostrano che la crisi della fame può essere risolta solo favorendo le piccole fattorie, gestite da persone che sono a loro volta vittime della crisi della fame (tre quarti degli affamati del mondo vivono in aree rurali).

Perfino Bill Gates ha suggerito che la soluzione per la crisi della fame – e di conseguenza per l’instabilità che ha provocato così tante guerre – è la piccola attività agroalimentare. Ma come possono i piccoli produttori emergere come salvatori del mondo quando sono affossati dall’agricoltura capitalista che ha creato una catena produttiva globale che avvantaggia le grandi aziende a detrimento delle piccole attività? Queste aziende capitalistiche processano il cibo andando al di là della nutrizione e dunque creano la crisi di obesità dell’occidente, specchio della crisi della fame nel sud del mondo. Qualcuno si deciderà a puntare i riflettori sulle loro attività?

Considerazioni
L’occidente si crede caritatevole e filantropico. Ma non sono stati i paesi occidentali ad affrettarsi per aiutare Mogadiscio. Il personale medico è arrivato da Gibouti e dalla Turchia, con un’ambulanza aerea turca che ha trasportato i feriti più gravi a Istanbul.

La benevolenza dell’occidente si misura con la forza distruttiva della sua industria agroalimentare e degli armamenti. Il compasso morale gira intorno ai semi Monsanto e agli elicotteri Sikorsky. Trump manderà altri soldati in Somalia. Questo è il contributo occidentale all’uragano che sta devastando il pianeta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito su Alternet.

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