25 febbraio 2017 10:40

Affacciato su quel che rimane di Parco Saraceno, Vincenzo Marotta indica il mare di Castel Volturno e torna con la mente a quando questo pezzo di litorale campano, a metà strada tra Gaeta e Napoli, era una sorta di colonia americana. L’ho conosciuto per caso in cima alla rampa d’ingresso dove, appoggiato alla balaustra, fermava i più che rari passanti per racimolare una sigaretta o qualche spicciolo e si è offerto di farmi da Caronte nelle viscere del quartiere, un quadrilatero di palazzine tutte uguali e prematuramente diroccate, attraversate da strade in cui il cemento la fa da padrone e trasformate in una discarica diffusa.

Per Marotta questa è “Beirut”, frazione di Castel Volturno che pare uscita da un bombardamento. Eppure, spiega l’improvvisato traghettatore indicando una spianata di asfalto che separa Parco Saraceno dalla spiaggia, non è stato sempre così: fino a una ventina d’anni fa c’erano un pub e una pizzeria frequentati dai militari della vicina base Nato che abitavano nel quartiere e il piazzale brulicava di vita. Marotta viveva delle mance degli yankees: dai dieci ai quindici dollari per ogni vettura parcheggiata, assicura. Nel regno dell’economia informale, era il re dei parcheggiatori abusivi. “Avevo pure quattro dipendenti”, afferma.

Si stenta a credergli, ascoltandolo oggi che il piazzale è desolatamente vuoto e i garage che ospitavano i locali per gli americani sono devastati. Oltre c’è il mare, ma non è raggiungibile se non facendo una gimkana tra reticolati divelti, elettrodomestici e pezzi d’arredamento disseminati qua e là a comporre un’estetica del degrado che un gruppo di fotoreporter locali ha immortalato in cartoline ironiche, “Qui la cultura non si differenzia”, con un ragazzo seduto su uno sgargiante divano giallo abbandonato in una discarica abusiva, “317 giorni di spiaggia all’anno”, con una famigliola sotto l’ombrellone e al di qua di una recinzione che chiude l’accesso alla spiaggia.

Più della metà del villaggio fu costruita su demanio statale

Me le mostra uno di loro, Eliano Imperato, che mi illustra l’idea di raccontare il territorio attraverso le strutture abbandonate, denunciando con amarezza ma anche con ironia. Hanno chiamato il progetto Abitare per sopravvivere, facendo il verso a un video-spot girato all’epoca della costruzione: s’intitola Abitare per vivere e rivela l’utopia palazzinaro-liberista di Pinetamare, una città giardino per quattromila abitanti che doveva avere come fiore all’occhiello Parco Saraceno, una sorta di quartiere-terrazza costruito su una piattaforma sopraelevata a cui si accede tramite la scalinata in cima alla quale ho trovato l’ex parcheggiatore Marotta.

I fratelli Cristoforo e Vincenzo Coppola, a partire dalla metà degli anni sessanta, avevano fatto le cose in grande: 12mila appartamenti, scuole elementari, medie e superiori, caserme per polizia e carabinieri, cinema, discoteche, ambulatori e sale congressi. Più della metà del villaggio fu costruita su demanio statale, comprese le otto torri con 650 appartamenti destinati ai marines dell’Us Navy, che per anni hanno segnato lo skyline della costa.

Vita da abusivo
Ai potenziali acquirenti i Coppola vendevano un sogno: quello di vivere in una città senza traffico, smog e microcriminalità. Oggi che il sogno ha definitivamente mostrato la sua inconsistenza, il contrasto con le immagini propagandate dai costruttori è stridente: palazzine di tre piani, ordinatamente disposte, senza spazio per la fantasia e tutte uguali, che cadono letteralmente a pezzi, appartamenti con porte e finestre murate per evitare occupazioni, verande abusive sui balconi, spesso senza ringhiere. Su un muro campeggia la scritta “Vogliamo il contatore”, una richiesta affatto banale per chi ruba la corrente elettrica allacciandosi alla rete con collegamenti di fortuna che saltano alla prima pioggia. Ovunque si respira un senso di desolazione.

Marotta si vanta di essere stato “il primo occupante”, quando ancora c’erano gli americani e la polizia militare a stelle e strisce garantiva la sicurezza in accordo con quella “privata” dei Coppola. Marotta è una delle vittime della “gentrificazione” del centro di Napoli, che va avanti ormai da più di trent’anni e ha gonfiato di disperati le periferie partenopee: come lui, a Castel Volturno arrivarono in cinquemila, espulsi da quel ventre di Napoli che comunque nessuno è mai riuscito a normalizzare del tutto. “Un amico mi disse che qui c’erano case disponibili, potevamo occuparne una senza problemi e così mi sono trasferito”, racconta con l’aria del pioniere.

Il suo appartamento si trova al pianterreno della prima palazzina che incrociamo sulla sinistra, appena arrivati in cima alla scala d’ingresso al quartiere. Ci abita con la figlia più giovane, una ragazza di ventun anni, pure lei senza lavoro. Gli altri sono scappati: due maschi in Germania, un’altra a Napoli. Lui non ha intenzione di muoversi. Nonostante la vita da “miserabile” a Parco Saraceno, dice, non saprebbe dove trasferirsi, ora che pure sua moglie non c’è più.

Vivere alla giornata è sempre più difficile pure per chi, come Marotta, è addestrato dalla nascita all’arte di arrangiarsi. I dollari americani non ci sono più e lui deve accontentarsi degli spiccioli che gli arrivano da lavoretti saltuari nelle case degli occupanti: piccole riparazioni, qualche toppa messa qua e là su edifici a dir poco fatiscenti. Oggi è irritato perché una donna nigeriana alla quale ha riparato il water tarda a portargli cinque euro che gli servirebbero per il pranzo. La stava aspettando da ore in cima alla scala, prima che arrivassi io a distrarlo.

Il regista casertano Romano Montesarchio ha raccontato l’umanità di questa popolazione dimenticata in un documentario. S’intitola Ritratti abusivi e uno dei protagonisti è proprio Vincenzo Marotta: “Abitavo a Napoli, lavoravo, sono venuto qui e mi sono rovinato”, sintetizza mirabilmente, non senza un filo d’ironia come un personaggio di Jim Jarmusch, seduto tra le mura scrostate del suo appartamento, il fisico mingherlino e il volto scavato dall’età indefinibile, invecchiato dalla vita più che dall’anagrafe.

Il documentario fa emergere il contrasto tra lo squallore del quartiere e lo straordinario attaccamento a esso dei suoi abitanti, tanto da far pensare che si crei un senso di comunità nel condividere una condizione di estrema povertà. “Sono tornata al mio paese ma non mi trovavo bene, mi mancava il Parco Saraceno”, dice un’occupante arrivata dall’hinterland partenopeo.

Eppure, ancora negli anni novanta in questa new city colonizzata dagli americani la moneta di riferimento era il dollaro, i ragazzi del posto imparavano l’inglese insieme al napoletano e per strada si giocava a baseball. Pinetamare doveva essere una piccola Miami mediterranea, un’oasi per la piccola borghesia in cerca di un riparo sicuro dai mali di Napoli, protetta da guardie private come una gated community di Johannesburg in Sudafrica o São Paulo in Brasile, una sorta di ghetto alla rovescia dove vivere con i propri simili, protetti dalle insidie del mondo esterno.

A trent’anni di distanza, il suo fallimento fa impressione: il porto per gli yacht e le barche di lusso è rimasto una chimera, la darsena è senz’acqua e i locali che la circondavano sono chiusi. Le otto torri a pochi metri dal mare, divenute uno dei simboli degli scempi edilizi in Italia, sono state abbattute dopo anni di battaglie ambientaliste. Il paradosso è che l’intesa del 2003 con regione Campania, provincia di Caserta e comune di Castel Volturno per un “intervento di riqualificazione” l’hanno firmata pure i principali responsabili della devastazione: i fratelli Coppola, che per risarcire la comunità locale avrebbero dovuto restaurare il castello che dà il nome alla cittadina e realizzare il porto da 1.200 posti davanti a Parco Saraceno. Ma tutto è rimasto sulla carta.

Immerso nella pineta davanti alla spiaggia, sopravvive solo l’hotel, anche questo costruito dai Coppola, che ospita, blindatissimi, gli allenamenti della squadra di calcio del Napoli e un lussureggiante campo da golf da diciotto buche protetto dalla vigilanza privata, dove sembra di essere catapultati all’improvviso tra le verdi colline scozzesi. Fatta eccezione per il capitano del Napoli, lo slovacco Marek Hamšík, che invece di cercarsi una villa a Posillipo come la gran parte dei suoi colleghi ha scelto di vivere a Pinetamare, tra i due mondi non c’è alcun contatto. Hamšík è considerato un “castellano doc”. Il giorno di Natale del 2016 si è tirato dietro fotografi e giornalisti tuffandosi in mare proprio davanti a Parco Saraceno, la Beirut di Castel Volturno.

Ascesa e declino di Parco Saraceno
Secondo Marotta tutto ha cominciato a precipitare “quando sono andati via gli americani”. Non è il solo a pensarlo, anche se molti fanno risalire l’inizio della trasformazione al terremoto del 1980, quando dai “bassi” del centro di Napoli si riversarono a Castel Volturno migliaia di persone in cerca di un tetto.

Daniele Manzo, titolare del bar Crazy Horse, a un centinaio di metri dall’ingresso di Parco Saraceno, crede che entrambe le versioni siano vere “solo in parte”. Il punto di svolta, a suo avviso, sono stati i sequestri per abusivismo edilizio, che hanno spinto i Coppola a smettere di sostituire l’amministrazione pubblica come avevano fatto fino a quel momento. “Garantivano tutti i servizi, se si fulminava una lampadina arrivava subito qualcuno a sostituirla”, racconta Manzo. In cambio, si facevano pagare una “quota di villaggio”, come in una sorta di megacondominio. Gli americani se ne sono andati quando si sono resi conto che i fondatori di Pinetamare “avevano costruito una caserma in un paese abusivo”, e per la città giardino è stata una deriva inesorabile. Si spostarono a Gricignano, nell’hinterland casertano, in un villaggio di casette basse in stile New Jersey recintato con il filo spinato. A costruirlo, ancora una volta i fratelli Coppola.

Daniele Manzo è arrivato a Parco Saraceno da bambino e può essere considerato a buona ragione un resistente. I suoi genitori avevano creduto al sogno di un’abitazione vicina al mare e non sono scappati quando questo è svanito. Suo padre ha deciso di continuare a viverci e lui ha appena rinnovato il bar, che si presenta moderno e accogliente. Una volta che l’equilibrio si è rotto, il villaggio è entrato nelle mire della criminalità organizzata, che da queste parti vuol dire il temibile clan dei Casalesi.

Negli anni duemila questi luoghi sono diventati il set di pellicole socialmente impegnate e a sfondo criminale

Per aver rifiutato l’imposizione della marca di caffè da vendere, Daniele Manzo si è ritrovato con la serranda del bar bucherellata da una sventagliata di mitra. Ma non si è lasciato intimidire. Ha sfidato gli estorsori, li ha denunciati e li ha fatti condannare. Insieme al titolare di un pub vicino, Luigi Ferrucci, ha fondato un’associazione antiracket intitolata a Domenico Noviello, titolare di un’autoscuola a Baia Verde, ucciso nel 2008 con venti colpi di pistola per aver fatto arrestare, nel 2001, gli emissari del clan che gli avevano chiesto il pizzo. Appena gli fu tolta la scorta, Noviello finì vittima di un agguato: i killer affiancarono la sua auto di prima mattina, tirarono fuori le pistole e gli scaricarono addosso venti proiettili.

Ferrucci, che incontro al Crazy Horse, ricorda che questi luoghi sono stati usati come set cinematografici. La parabola è illuminante: “Negli anni settanta, quando Castel Volturno aveva una buona fama, ci giravano film scanzonati, dalle commedie con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia ai cosiddetti musicarelli”, un sottogenere cinematografico nato a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta con l’obiettivo di fare pubblicità ai dischi di cantanti all’epoca sulla cresta dell’onda e di attirare un pubblico giovanile. A Castel Volturno ricordano ancora il passaggio di Little Tony, l’Elvis Presley italiano.

Vincenzo Marotta, Parco Saraceno, Castel Volturno, 1 dicembre 2016. (Mauro Pagnano, Etiket Comunicazione)

Poi sono arrivati gli anni ottanta e novanta del pop-trash, con i film a sfondo sentimentale che avevano come protagonista il cantante napoletano Nino D’Angelo, una via di mezzo tra il musical, la sceneggiata e gli stessi musicarelli.

Infine, negli anni duemila questi luoghi sono diventati il set di pellicole socialmente impegnate e a sfondo criminale: da Fortàpasc, il film di Marco Risi sull’omicidio del giornalista del Mattino Giancarlo Siani ucciso dalla camorra di Torre Annunziata, a Gomorra e L’imbalsamatore di Matteo Garrone, dalla serie poliziesca La squadra a L’uomo in più di Paolo Sorrentino e a Là-bas di Guido Lombardi, ispirato alla strage di San Gennaro, fino al recente Indivisibili di Edoardo de Angelis, storia di due gemelle siamesi costrette dalla famiglia e da un prete senza scrupoli a non separarsi perché, nel degrado ambientale e sociale circostante, una persona “normale” farebbe la fame.

“Volevo mettere in relazione la purezza del desiderio con un mondo circostante violentato e svenduto”, ha detto il regista a Internazionale presentando la prima scena del film, dove tre prostitute risalgono la spiaggia di Castel Volturno, sulla quale spicca un Cristo abbandonato.

C’era una volta l’America
Per i giovani millennials di Pinetamare oggi l’America è lontana. Le generazioni precedenti sono invece rimaste segnate da quella stagione.

Vanni De Stefano ne è un esempio. T-shirt griffata Nike, pantaloni mimetici e scarpe da ginnastica ai piedi, non sarebbe mai diventato un rapper senza l’educazione partenopeo-americana ricevuta, che riassume in questo modo: “Le nostre lingue erano il napoletano e l’inglese, ascoltavamo la musica che arriva da oltreoceano, giocavamo a basket e football americano, festeggiavamo Halloween”.

De Stefano, che si fa chiamare Socrate ed è molto popolare nei locali della zona, parla con un pizzico di nostalgia dei tempi passati, quando “vivevamo come in un villaggio turistico, con una qualità di vita che altrove si sognavano”. È convinto che “se l’hip hop non fosse nato a New York, avrebbe visto la luce a Napoli”, lungo quel quarantunesimo parallelo che unisce le due città come un filo invisibile in virtù di quella colonizzazione ben mascherata cominciata dopo la liberazione, quando gli americani si impadronirono del porto, cambiando il corso della storia partenopea del dopoguerra, come sostiene lo scrittore Ermanno Rea nel romanzo Mistero napoletano.

Come gli altri ragazzini del quartiere, Vanni de Stefano all’epoca si guadagnava da vivere portando a domicilio la spesa alle famiglie dei militari. “Ne ricavavo fino a ottanta dollari al giorno”, racconta. Avevano l’America in casa, a Castel Volturno. Finché un giorno il sogno americano è finito e la città giardino si è trasformata in una “periferia dei Casalesi”. Parola del barista anticamorra Daniele Manzo.

La polveriera Castel Volturno
All’annuale cerimonia in ricordo delle vittime della strage di San Gennaro, il 18 settembre 2016, il sindaco Dimitri Russo ha lanciato l’allarme: “Castel Volturno è una polveriera pronta a esplodere”.

A suo parere non sono mutate le condizioni che portarono, lo stesso giorno del 2008, un commando dei Casalesi guidato dal boss Giuseppe Setola a uccidere, davanti a una sala giochi di Baia Verde e alla sartoria Ob Ob Exotic Fashion di Ischitella, il gestore italiano del locale e sei africani. “Dopo otto anni c’è ancora un solco profondo tra la comunità locale e gli immigrati, la tolleranza ormai è un filo sottile che potrebbe spezzarsi in qualsiasi momento”, ha detto Russo quel giorno. Da allora non è accaduto nulla che potesse fargli cambiare idea. Seduto alla sua scrivania in municipio, il primo cittadino allarga le braccia: dopo la mattanza del 2008, la rivolta dei migranti e le giornate di grande tensione, a suo avviso tutto è tornato come prima. Per alcuni aspetti, ritiene che la situazione sia perfino peggiorata.

Ho voluto incontrarlo per avere qualche informazione in più su Parco Saraceno e Russo si è fatto trovare preparato. Mi mostra alcune carte e una mappa del quartiere: dall’ultimo censimento, datato 4 agosto 2015, una cinquantina di appartamenti risultano occupati illegalmente da disperati provenienti da ogni dove.

Difficile sapere quanta gente ci viva, perché la gran parte degli abitanti non è registrata e molti vecchi proprietari hanno abbandonato le loro case quando il Parco si è trasformato nella “Beirut” di Castel Volturno. Per anni, mentre la situazione degradava sempre più, si è discusso sul che fare di questa mega speculazione edilizia: per alcuni i Coppola avrebbero dovuto abbattere le palazzine e riqualificare a loro spese l’area che avevano devastato, secondo altri l’avrebbero dovuta riqualificare insieme al vicino porto mai decollato. Le due posizioni si sono neutralizzate a vicenda e alla fine non è accaduto nulla.

Russo alza le braccia quasi in segno di resa. Magari avessimo solo il problema di Pinetamare, dice elencando il numero impressionante di residence e agglomerati di palazzine nelle stesse condizioni che si dipanano lungo i ventisette chilometri di costa della cittadina casertana: dalle villette confiscate di Parco Allocca, a sud nella zona del lago Patria, fino alle casette abusive mangiate dal mare a Bagnara, all’estremo nord, viene fuori il ritratto di un pezzo di territorio italiano del quale lo stato ha perso il controllo. Non un unico ghetto, insomma, ma tanti quanti i parchi abusivi e i miniquartieri che gli speculatori hanno pensato bene di tirar su nel lungo sacco edilizio cominciato alla metà degli anni sessanta e andato avanti fino ai novanta, con una concentrazione ineguagliata in Italia.

Sono tutti figli dell’era dei Coppola, quando in tanti si sono improvvisati piccoli costruttori e interi quartieri sono nati dal nulla. “Il problema è che a Castel Volturno ci sono almeno 40mila abitazioni abusive abbandonate, di scarsa qualità e ormai cadenti, pronte per essere occupate”, spiega Dimitri Russo. Un quarto di queste è costruito su demanio pubblico, a volte perfino sulla spiaggia.

“Nella peggiore delle ipotesi con cento euro affitti un appartamento e con 20mila euro riesci a comprartelo”, prosegue. I controlli sono difficili per gli scarsi mezzi a disposizione e per l’impossibilità di sgomberare e ricollocare migliaia di persone che vivono con un’economia di fortuna, e questo ha fatto di Castel Volturno una sorta di “porto franco”. “Qui in un modo o nell’altro si campa”, conclude il sindaco, che rappresenta quella parte della città che non vuole arrendersi al suo disfacimento. Per questo ha denunciato il rischio che la “polveriera” Castel Volturno possa esplodere da un giorno all’altro.

Tutta un’altra storia
Dimitri Russo si è presentato con una lista di centrosinistra per ridare un volto pulito alla cittadina dopo che il comune era stato commissariato per infiltrazioni camorristiche e nessuno dei sindaci degli ultimi vent’anni era rimasto esente da sospetti di collusione con il temibile clan dei Casalesi, sempre nel nome del cemento selvaggio. Lo slogan della sua campagna elettorale, nel 2014, era eloquente: “Tutta n’ata storia”, “tutta un’altra storia”.

Voleva riecheggiare una delle canzoni più note del cantautore napoletano Pino Daniele, che nel testo afferma la propria diversità culturale rispetto alla musica americana che si ascoltava nei locali a stelle e strisce del porto di Napoli, e al contempo segnare una cesura rispetto all’epoca in cui la commistione tra politica e malavita aveva creato un disastro urbanistico e sociale che non ha pari in un paese occidentale. Ora si trova a dover gestire il lato più oscuro della “gentrificazione” napoletana e le critiche di chi chiede il pugno duro contro gli immigrati ma non fa una piega di fronte al loro sfruttamento nelle campagne.

Sulla particolarità di questa cittadina dell’Italia meridionale che oggi si trova a guidare ci ha scritto la sua tesi di laurea. Ha verificato che in appena quarant’anni la popolazione è cresciuta da meno di quattromila a cinquantamila abitanti e che ogni anno l’anagrafe registra un migliaio di nuovi residenti e più o meno altrettanti che vanno via, ed è giunto alla conclusione che per questo motivo a Castel Volturno “non esiste una comunità forte, con un’identità riconosciuta”, e questo non aiuta la coesione sociale.

Tutti alloggiati nella giungla di cemento abusivo che si distende lungo i ventisette chilometri di litorale domizio

Gli dà ragione padre Antonio Bonato, che con un gruppo di missionari comboniani è arrivato qui per aiutare i poveri come in una qualsiasi bidonville africana. Intervistato dalla giornalista Ilaria Urbani nel libro La buona novella (Guida editore), ha detto: “Qui è l’idea di cittadinanza che manca, non abbiamo cittadini ma abitanti, sia italiani che immigrati”. Per lui, che è arrivato nel casertano alla vigilia della strage di San Gennaro dopo sedici anni in Mozambico, la difficoltà maggiore è legata al fatto che “tutti considerano Castel Volturno solo un luogo da sfruttare, perché trovi gli appartamenti a un prezzo irrisorio e ti puoi sistemare con poche risorse”.

I numeri sono impressionanti: per 25mila abitanti regolarmente registrati, a Castel Volturno se ne stimano altrettanti che sfuggono a qualsiasi censimento, “invisibili” come il Garabombo dell’omonimo romanzo di Manuel Scorza. Non-cittadini che non hanno diritto all’assistenza medica di base e al welfare locale, ma che ciononostante gravano sulle spalle del comune, come l’ex parcheggiatore Vincenzo Marotta e gli altri occupanti di Parco Saraceno o come i 15mila immigrati senza permesso di soggiorno della “little Africa”. Se si contano pure i numerosi europei dell’est, il rapporto tra popolazione autoctona e immigrati è di uno a uno. Tutti alloggiati nella giungla di cemento abusivo che si distende lungo i ventisette chilometri di litorale domizio.

Latente guerra civile
Il sindaco Russo mostra i bilanci e snocciola cifre: su venti milioni di spesa annua, la metà se ne va per la raccolta e smaltimento dei rifiuti, un milione per i depuratori e l’illuminazione, un altro milione per i servizi sociali. Inoltre, il comune versa 170mila euro per condividere alcune attività con i comuni vicini. A questi vanno aggiunti altri 800mila euro di spesa per il pacco alimentare ai poveri e per l’assistenza ai disabili e ai minori, inviati in strutture di accoglienza quando le madri vengono arrestate. Ancor più dei 700 detenuti agli arresti domiciliari da controllare, quello delle donne incarcerate è un problema di primaria importanza a Castel Volturno: la gran parte di loro è single e l’amministrazione è costretta a prendere in carico i figli.

Il primo cittadino è disperato: si trova a dover assistere una popolazione reale che è il doppio di quella ufficialmente censita, con un comune semi-fallito e una latente guerra civile tra residenti e non.

‘Se gli africani decidessero di andarsene questo sarebbe un paese fantasma’

Viceversa, se da un lato i cittadini se la prendono con gli africani, appena il 20 per cento di loro paga “spontaneamente” le tasse. Un altro 10 per cento “lo recuperiamo coattivamente nel giro di qualche anno”, spiega Russo. Il resto va a ingrossare la lista dei crediti da riscuotere. “Un giorno abbiamo fatto un piccolo test: su venti persone controllate a caso in un’unica strada durante una protesta contro la carenza di servizi, solo 19 erano in regola con i pagamenti”, racconta Alessandro Buffardi, un consigliere comunale che si occupa dei beni confiscati.

Faccio anch’io una piccola prova: in un vicoletto chiuso nell’antico borgo murato del castello, solo una signora garantisce di pagare le imposte comunali. Lo dice fiera per lamentarsi con il comune del fatto che dall’abitazione di fronte, diroccata, con il tetto sfondato e le erbacce che proliferano all’interno, piovono pietre e nessuno interviene.

Un barbiere in cui lavorano alcuni immigrati a Destra Volturno, 1 dicembre 2016. (Mauro Pagnano, Etiket Comunicazione)

Russo non sa più che pesci prendere: ogni anno mancano all’appello almeno cinque milioni e il comune è in dissesto economico, il governo non lo sostiene e a lui pare di guidare una barca che fa acqua da tutte le parti. “Per trent’anni non è stata fatta alcuna manutenzione o i lavori sono stati fatti male, le fogne saltano e le strade sprofondano e noi abbiamo difficoltà perfino a sostituire una lampadina”, si lamenta. Per far intendere cosa vuol dire, spiega che, se dovesse decidere di abbattere una delle decine di migliaia di case costruite sul demanio pubblico, anche solo per dare un segnale simbolico contro l’abusivismo, non avrebbe i soldi per farlo.

L’unica soluzione sarebbe chiedere un prestito alla Cassa depositi e prestiti e poi cercare di rivalersi con il proprietario, avviando un contenzioso che durerebbe anni per provare a riavere indietro i soldi spesi e risarcire la banca d’affari del ministero delle finanze.

Si tratta di una spirale perversa: il Comune non riesce a garantire i servizi per tutti, chi vive di espedienti chiede assistenza ma trae beneficio dall’assenza dello stato, i cittadini soffrono la disparità di trattamento con i non cittadini e i meno accorti se la prendono con i più deboli tra tutti, ossia gli immigrati, nemmeno immaginando che, a sud del Sahara, per molti giovani che aspirano a venire in Europa quest’ultima ha il volto di Castel Volturno.

L’Africa napoletana
Il cuore pulsante di questo pezzo d’Africa europea, disseminata per i ventisette chilometri di costa e oltre, nelle vicine Mondragone a nord e Villa Literno a sud, nonché nei paesi dell’interno, è nella distesa di case e villette destinate alla villeggiatura che si trovano sulla sponda destra del fiume Volturno, a un passo dal mare. Oggi è una lunga teoria di strade malridotte, abitazioni abbandonate e sventrate dalle quali spunta qua e là qualche segno di vita, vedette italiane dei clan agli angoli delle strade, bar, pizzerie e ristoranti inesorabilmente abbandonati, chiese pentecostali e qualche centro islamico, piccole attività commerciali a uso e consumo, alternativamente, degli italiani o degli africani.

Aniello Capone ne è considerato una sorta di sindaco occulto: ha costruito buona parte delle villette e condomini di Destra Volturno “quando qui non c’era nulla”, nemmeno il piano regolatore, ha venduto le abitazioni e poi ha portato pure acqua, luce e fognature. Quando gli chiedi perché l’ha fatto lui e non lo stato, gli sbuca un sorriso sornione sotto il cappello a larghe falde, come a dire: chi altri poteva farlo? Poi risponde: “Mi hanno accusato di estorsione per aver chiesto agli abitanti il conto, ma potevo lasciarli senza servizi o aspettare che si mettessero d’accordo tutti?”.

Da “Scipione” vanno a fare la spesa tutti, italiani e africani: pesci lucertola essiccati o creme sbiancanti, pasta e pane . Il titolare del minimarket si rivolge in napoletano con i primi e ha imparato la lingua twi ghaneana per farsi intendere dai secondi. Esordisce così: “Se gli africani decidessero di andarsene questo sarebbe un paese fantasma”.

Trascorrere una mattina nel suo negozio è come assistere a uno spot vivente sull’integrazione: risponde per le rime a un africano che, pensando di non essere capito, lo chiama “mariuolo” per il costo, a suo dire eccessivo, di un articolo; scherza con i clienti, bacchetta e prende in giro i compaesani che “hanno il razzismo inculcato” e “pensano che la piaga di Castel Volturno siano i neri”. “Scipione”, all’anagrafe Maurizio Russo, 54 anni e “castellano doc”, non è tenero con i suoi concittadini: “Prima hanno devastato questo posto e ora se la prendono con i neri, ma la verità è che gli africani fanno comodo a tutti, perché lavorano, guardano le case e le abitano, spesso al nero”.

Gli abusivi però non hanno fatto i conti con l’erosione costiera, testimoniata dalle casette mangiate dal mare

Non è l’unico a pensarla in questo modo. Barbara Carino abita qui da 25 anni con i genitori e due figli, un ragazzo di 16 anni e una bambina di dieci. Al pari del parcheggiatore Vincenzo Marotta, pure lei è una vittima della “gentrificazione” napoletana: è arrivata dal cuore della città e, come gli occupanti di Parco Saraceno, non lascerebbe mai l’enclave afro-campana di Destra Volturno. Ci ha provato una sola volta, andando a Torino alla ricerca di un lavoro, ma è tornata dopo appena quindici giorni. Troppo freddo, troppo caos, troppi rumori, troppe difficoltà a entrare in relazione con le persone, perfino con i vicini di pianerottolo, sostiene. “Avevo nostalgia perfino dell’odore del caffè che la mattina arriva dai vicini di casa”, afferma. Ci tiene a smontare i cliché negativi sul quartiere.

Dice che, “nonostante tutto, a Destra Volturno si può star bene”, anche se, ammette, “bisogna saperci vivere”. Basta abituarsi all’assenza di servizi e organizzarsi in proprio: per esempio, noleggiando un pulmino privato per mandare i figli a scuola in paese in modo non lasciarli mai per strada, facendo a turno con le altre famiglie per invitare i ragazzi a casa. Facciamo un giro nel quartiere: entriamo in un minimarket nigeriano e in un “barber shop” togolese, scambiamo quattro chiacchiere con due abitanti del posto e, arrivati alla spiaggia di Bagnara, all’estremo nord di Castel Volturno, confessa: “Non ce la farei neppure a tornare in città”, che per lei vuol dire la sua Napoli. Le mancherebbe troppo, dice, “il silenzio che c’è qui”, l’assenza assoluta di rumori urbani, di traffico e di pedoni.

Barbara Carino mi ha portato fin qui per mostrarmi il paese abusivo sommerso. A Bagnara non ci sono le villette e i residence di Destra Volturno e neppure le palazzine di Parco Saraceno, ma domina l’edilizia informale. Chi voleva si è recintato un pezzetto di demanio pubblico e ci ha costruito sopra, spesso a pelo d’acqua. Gli abusivi però non hanno fatto i conti con l’erosione costiera, della quale le casette mangiate dal mare sono testimonianza e termometro allo stesso tempo: più l’acqua si alza e più il quartiere viene sommerso, candidandosi al ruolo di novella Atlantide dell’abusivismo edilizio. Negli ultimi anni il mare ha mangiato duecento metri di terraferma e oggi dal mare spuntano pilastri e spezzoni di cemento armato. Quando c’è bassa marea, mi dicono, spunta pure un comignolo.

La nuova capitale della droga
A Destra Volturno gli unici passanti, negli orari di andata o ritorno dal lavoro, a piedi o in bicicletta, sono gli africani e poco altro. Nelle altre ore si vede solo chi non è riuscito a guadagnarsi la giornata mettendosi al soldo di un caporale.

Secondo la polizia, che quotidianamente gioca al gatto e topo con gli spacciatori, questo quartiere ghetto, destinato al turismo e finito nelle mani della criminalità organizzata come una qualsiasi periferia degradata di una grande città, è la nuova capitale della droga in Campania. Qui si sono trasferiti spacciatori in cerca di una “zona franca”, latitanti in cerca di rifugi sicuri e perdenti delle guerre di camorra, costretti a emigrare per non essere uccisi. Le piazze di spaccio sono “dinamiche”, non fisse e invisibili, “anche grazie allo sviluppo urbanistico sconsiderato che offre innumerevoli ripari nelle decine di stabili abbandonati”.

Qui incrociano gli affari la camorra partenopea e la “mafia nigeriana” di cui parla Sergio Nazzaro, un giornalista casertano, nel libro-reportage Castel Volturno (Einaudi). L’autore dipinge la cittadina come una “Gotham city del Sud senza Batman”, un luogo libero da ogni regola o contratto sociale, “una metropoli sul mare con le fattezze di un paesino del Meridione”, nella quale boss africani gestiscono traffici di cocaina ed eroina per decine di milioni di euro. Le stradine che portano verso la spiaggia sono sbarrate da cancelli e inferriate che, mi dicono, servono a proteggere le connection houses, “case chiuse” dove la prostituzione è gestita dalle “tenutarie” nigeriane. Per mostrare, con ironia, quel che accade in queste ultime, un ex prete e rapper milanese, Gianluca Castaldi, e il regista Vincenzo Cavallo hanno ideato una serie web che affronta con ironia il tema dell’integrazione nella più grande banlieue d’Europa.

Parco Saraceno, Castel Volturno, 1 dicembre 2016. (Mauro Pagnano, Etiket Comunicazione)

La particolarità è che i protagonisti sono i diretti interessati. Castaldi è uno dei pochi bianchi ad aver avuto accesso in questo mondo e questo l’ha aiutato a delineare l’ossatura di quella che ha definito una “social fiction”. Il protagonista è un giovane napoletano di buona famiglia mai allontanatosi da Posillipo che, dopo il fallimento dell’azienda paterna, decide di trasferirsi a Castel Volturno in una casa ereditata dalla nonna, ma la trova occupata da un gruppo di africani e trasformata in una connection house, appunto. Nel 2008, dopo la strage, insieme ad alcuni attivisti del centro sociale Ex canapificio di Caserta, Castaldi ha creato il laboratorio musicale Kalifoo Ground, che è il nome che gli africani hanno dato alle rotonde lungo la via Domiziana dove ogni mattina aspettano l’arrivo dei caporali, spesso immigrati come loro, per finire a lavorare nelle campagne per pochi euro al giorno.

Da Jerry Masslo alla strage di San Gennaro
Quando ho trascorso una notte nella “piazza degli schiavi” di Villa Literno per osservare da vicino il gigantesco mercato a cielo aperto delle braccia destinate all’agricoltura di giornata, Tammaro Della Corte, un sindacalista di strada che con un gruppo di attivisti pattugliava la via Domiziana, che percorre da nord a sud il territorio di Castel Volturno, allungando ai braccianti dei foglietti con un numero di telefono da contattare in caso avessero bisogno di aiuto, mi aveva detto che, nonostante tutto, le condizioni dei migranti sono migliorate rispetto a quando, la notte del 17 settembre del 1994, in una sorta di Mississippi burning all’italiana, fu incendiato il ghetto dove vivevano duemila africani (un episodio al quale la band napoletana Almamegretta dedicò la canzone Scioscie viento).

Non è dello stesso avviso il sindaco Dimitri Russo, per il quale poco o nulla è cambiato dal giorno in cui, nella stessa baraccopoli che cinque anni dopo andrà a fuoco, fu ucciso il sudafricano Jerry Essan Masslo, al quale oggi sono intitolati la locale camera del lavoro, un’associazione che si occupa di immigrazione e pure un premio letterario.

La figura del giovane immigrato, trucidato in un maldestro tentativo di rapina nel 1989, da queste parti è divenuta l’emblema di chi lotta per i diritti dei migranti. A Umtata, la città in cui condivideva i natali con Nelson Mandela, Jerry Masslo era stato un attivista, vicino alle posizioni dell’Anc e del movimento della Black consciousness fondato da Steve Biko, organizzazioni che lottavano per la fine dell’apartheid.

Su Masslo non ci sono notizie certe: pare che il padre fosse stato fatto scomparire dal regime e che avesse perso una figlia piccola, colpita da un proiettile vagante durante una manifestazione. Quel che è sicuro è che era arrivato dal Sudafrica in maniera rocambolesca: dopo aver messo in salvo moglie e figli da alcuni parenti in Zambia, era partito prima alla volta della Nigeria, nascosto nella scialuppa di salvataggio di una nave cargo, e da qui in aereo verso Roma, dove aveva trovato rifugio alla Comunità di Sant’Egidio per poi finire a raccogliere pomodori nella pianura casertana. Ma non aveva piegato la testa di fronte agli sfruttatori. Partecipava alle riunioni dei migranti che chiedevano salari migliori, coperture assicurative e condizioni di lavoro più umane.

“Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato e allora ci si accorgerà che esistiamo”, disse in un’intervista alla trasmissione del Tg2 Nonsolonero.

Andò proprio così: la sua profezia si avverò e ne rimase vittima lui stesso, ucciso durante un maldestro tentativo di rapina che non ebbe nulla di casuale. La caccia al nero era uno sport comunemente praticato e perfino teorizzato da alcuni giovani del posto. Ancora oggi, racconta Maurizio Russo tra una consegna e l’altra al bancone del minimarket Scipione, minacciare con le spranghe gli africani che escono di casa, all’alba, per andare a raccogliere i pomodori, è un’abitudine diffusa tra i giovani che li incrociano, soprattutto d’estate, all’uscita da discoteche e locali notturni.

Non era mai accaduto prima e non avverrà in seguito che per la morte di un bracciante africano sia organizzato un funerale di stato

Jean René Bilongo, un camerunense che a Castel Volturno è tra gli animatori dell’associazione intitolata al sudafricano ucciso, ha raccontato in questo modo quello che accadde la sera del 23 agosto 1989: “Jerry si era ritirato nel capannone per attrezzi di via Gallinelle che condivideva con altri ventotto suoi compagni. Avevano trascorso un momento insieme, tra una frugale pietanza fredda e una chiacchierata sull’andamento della giornata. Mentre si preparavano a sdraiarsi sui loro ruvidi cartoni per la nottata, un gruppo di sei ragazzi fece irruzione. Avevano il volto coperto da passamontagna ed erano muniti di mazze e altre armi che s’intravedevano nella penombra. Intimarono che venissero consegnati loro i soldi guadagnati nei campi. Nessuno lo fece. Ci fu un po’ d’agitazione, volavano parole indecenti, cominciò una colluttazione. Fu allora che uno dei balordi colpì alla testa, col calcio della pistola, lo sprovveduto Ayuel Bol Yansen, un sudanese di 29 anni. In quello stesso istante, Jerry si affacciò per capire cosa stesse succedendo. Impazzito, uno dei rapinatori gli sparò tre colpi con la pistola calibro 7.65 che impugnava. Jerry cadde a terra, rantolando e chiedendo aiuto. Lottava contro la morte, disteso in una pozza di sangue. Altri due braccianti furono feriti, ma in modo lieve. Il trambusto degli spari e il fuggi-fuggi generale che seguì fecero accorrere gli altri ragazzi che dormivano sotto il muro di cinta del terreno dove si trovava la casupola. I balordi scapparono, spaventati dalla prevedibile reazione degli inferociti stranieri. Per il povero Masslo non ci fu più nulla da fare”.

Quel delitto che faceva tornare alla mente le esecuzioni del Ku klux klan nell’America schiavista ebbe un’eco inaspettata, facendo scoprire al paese l’esistenza degli immigrati e le loro indegne condizioni di vita e di lavoro. A Villa Literno arrivarono le massime autorità politiche e a Roma fu indetta un’imponente manifestazione antirazzista che portò all’approvazione della prima legge sull’immigrazione. Quest’ultima prese il nome del suo proponente: il vicepresidente del consiglio Claudio Martelli, all’epoca giovane socialista in rapida ascesa politica all’ombra del segretario Bettino Craxi.

Non era mai accaduto prima e non avverrà in seguito che per la morte di un bracciante africano sia organizzato un funerale di stato come avvenne per l’omicidio di Jerry Masslo. Non accadrà un anno dopo quando, nella vicina Pescopagano, un commando della camorra sparerà all’impazzata davanti a un bar lasciando a terra due morti e sei feriti, e neppure la sera di San Gennaro del 2008, neppure dopo che sarà accertato che i ghaneani Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher Adams, El Hadji Ababa, il togolese Samuel Kwako e il liberiano Jeemes Alex erano stati trucidati semplicemente per far capire che a controllare il territorio erano i Casalesi e non per risposta a uno sgarro o per vendetta criminale.

Per identificare gli autori sarà decisiva la testimonianza di un ghaneano, Joseph Ayimbora, che, colpito da diversi proiettili, sopravvisse fingendosi morto e poi riconobbe chi gli aveva sparato e altri due componenti del commando. Secondo i giudici, si trattò di una strage con chiare finalità terroristiche, aggravata dalla discriminazione e dall’odio razziale, motivazione inedita nella storia degli omicidi di camorra.

La resistenza dei sindaci
Per provare a reagire, l’amministrazione guidata da Dimitri Russo ha puntato gran parte delle sue carte sul recupero dei beni confiscati alla camorra e sulla loro assegnazione ad attività sociali. Sono 115 e ne stanno arrivando altri 88, cifre che fanno di Castel Volturno il comune con il più alto numero di beni confiscati alla camorra di tutta la Campania.

Qui i clan di tutta la regione venivano a reinvestire i soldi sporchi in edilizia di bassa qualità e più che discutibile estetica. Nel solo Parco Allocca, costruito in una vecchia cava vicino a un lago artificiale da un imprenditore legato ai Casalesi e destinato ancora una volta ai militari americani, sono state confiscate 34 villette. Una di queste è stata pure occupata da un ignaro senzacasa ghaneano, poi sgomberato. Per segnare la discontinuità con il passato recente, il Parco è stato reintitolato a “Faber”, com’era affettuosamente soprannominato il cantautore Fabrizio De Andrè, nel 1979 sequestrato per quattro mesi dall’Anonima sequestri in Sardegna insieme a sua moglie Dori Ghezzi.

A Castel Volturno tutto ciò che ha a che fare con il cemento puzza di camorra e di corruzione. L’appalto per la villa comunale di Destra Volturno è stato uno dei motivi che hanno spinto il ministero dell’interno a sciogliere la giunta comunale, nel 2012, per infiltrazioni camorristiche. Si tratta di un enorme spazio verde attrezzato e recintato attorno a un lago artificiale. I lavori furono assegnati a una ditta che faceva capo al clan dei Casalesi e il risultato è sotto i miei occhi: la villa, con tanto di panchine e percorsi pedonali, non può essere aperta perché, a causa dei passamano costruiti male, i bambini rischierebbero di finire in acqua e annegare.

La casa di Alice, una sartoria sociale in cui lavorano donne italiane e nigeriane, Castel Volturno, 13 maggio 2016. (Mauro Pagnano, Etiket Comunicazione)

Di fronte all’ingresso, un’ex pizzeria è stata affittata ai missionari comboniani che l’hanno risistemata e assistono gli immigrati, qui come in uno slum di Nairobi. Punto di riferimento per tutti gli africani di Castel Volturno è però il centro Fernandes, che si trova lungo la via Domiziana. I suoi giardini sono un punto di ritrovo per la comunità nera, ma chiunque abbia bisogno di un letto, un pasto caldo, una visita medica, una consulenza burocratica o ha solo necessità di farsi una doccia passa di qua.

All’ingresso mi attende Erik, un giovane per metà della Sierra Leone e per l’altra metà del Ghana. Mi racconta che non è arrivato in Italia, come la maggioranza dei suoi connazionali, con uno dei barconi che quotidianamente solcano il canale di Sicilia rischiando il naufragio. Era stato prelevato dai talent scout della squadra di calcio del Lione, alla ricerca di giovani promesse in Africa. Sarebbe potuto diventare un calciatore importante ma, arrivato in Francia, è fuggito senza cogliere l’opportunità. È andato a Torino e poi a Castel Volturno, perché era senza permesso di soggiorno e “alcuni amici del Ghana mi hanno detto che qui avevo poche possibilità di essere scoperto”. Ora è in regola e ha provato a portarsi sua madre. Ma lei non ha resistito e ha voluto tornare nel suo villaggio in Ghana.

Erik mi porta a fare un giro nel centro Fernandes, un’ex caserma donata alla Caritas dall’omonima famiglia napoletana: ci sono una biblioteca, un centro d’ascolto, una mensa, un dormitorio appena rimesso a nuovo, uno studio dentistico e un ambulatorio medico che può contare su un volontario d’eccezione: il sindaco della vicina Casal di Principe Renato Natale. Non si tratta di un personaggio qualsiasi: si trovava a fare il sindaco, per un breve periodo, il giorno in cui un killer della camorra entrò nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari e scaricò addosso al parroco don Peppe Diana, che si apprestava a celebrare la messa, cinque colpi di pistola.

Il prete era colpevole di essersi rifiutato di celebrare il funerale di un uomo ucciso in uno scontro tra cosche. Nella sua predica più famosa, intitolata “Per amore del mio popolo non tacerò”, aveva detto: “La camorra rappresenta uno stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello stato legale”.

Oggi che è di nuovo sindaco, Renato Natale ne ha raccolto idealmente il testimone. Considera il clan dei Casalesi “una dittatura militare” e chi si oppone a essa come “un resistente”. Ha restituito alla cittadinanza, facendone un centro per la riabilitazione mentale, la villa che il boss Walter Schiavone, fratello del capoclan Francesco soprannominato “Sandokan”, si era fatto costruire sul modello di quella del mafioso Tony Montana –Al Pacino in Scarface, e ha dichiarato: “Da oggi la chiameremo Villa della Liberazione”. Ha rifiutato la scorta armata perché “non serve a nulla” e utilizza come slogan il titolo di una canzone del rapper napoletano Lucariello, Miettice ‘a faccia, il cui ritornello recita: “Quando la paura ti abbraccia mettici la faccia”. Nonostante gli impegni istituzionali, non manca un appuntamento con i pazienti africani, che cura gratis due sere alla settimana nell’ambulatorio medico del centro Fernandes.

A casa di Pupetta Maresca
Il fiore all’occhiello dei beni recuperati è l’ex villa di Pupetta Maresca a Baia Verde. Maresca, giovanissima donna di camorra, al sesto mese di gravidanza, il 16 agosto 1955 uccise il mandante dell’omicidio di suo marito Pasquale Simonetti, detto Pascalone ‘e Nola (il boss che stabiliva il costo della frutta e della verdura al mercato ortofrutticolo di corso Novara a Napoli), scaricandogli addosso l’intero caricatore di una pistola Smith&Wesson. Un gesto che ha ispirato al regista Francesco Rosi il film La sfida. La casa è stata trasformata in una sartoria sociale nella quale sono impiegate donne italiane e nigeriane.

L’hanno chiamata La casa di Alice e producono capi realizzati con un mix di tessuti africani e occidentali. Ho assistito a una sfilata dei loro capi d’abbigliamento in un altro edificio recuperato: una masseria appartenuta a Michele Zaza, boss con ville a Posillipo e a Beverly Hills, nella quale si allevavano cavalli destinati alle corse clandestine e si custodivano le sigarette di contrabbando, oggi riconvertita da un gruppo di ingegneri e agronomi in un caseificio che produce quelle che definiscono “mozzarelle della legalità”. In mostra c’erano una gran varietà di tessuti africani variopinti “made in Castel Volturno”, a testimoniare quanta Africa ci sia oggi in questo pezzo di sud Italia. All’ingresso della masseria un tempo appartenuta al boss, la scritta a caratteri cubitali “Qui la camorra ha perso”.

Il comune ha assegnato l’abitazione, una tipica casetta di mare con un bel giardino e la bizzarria di un camino sul quale la padrona di casa aveva fatto incidere le sue iniziali, all’associazione Jerry Masslo, dalla quale è nata la cooperativa Nuovi Orizzonti, che gestisce la sartoria sociale.

Pupetta Maresca ha dovuto arrendersi di fronte alla tenacia di un pugno di donne pacifiche e determinate, come non aveva fatto di fronte al capo indiscusso della nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo, contro il quale convocò una conferenza stampa per sfidarlo a viso aperto, e prima ancora dinanzi all’uomo presunto mandante dell’omicidio del marito: Antonio Esposito, soprannominato Totonno ‘e Pomigliano. Lo stesso che, come ha raccontato nel saggio Politica e crimine lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger dopo aver seguito l’intero processo, alla fine del fastoso matrimonio tra i due in un ristorante di Castellammare di Stabia, senza lasciar presagire quello che sarebbe accaduto di lì a qualche mese, si era alzato in piedi intonando un celebre canto di malavita: “Guapparìa”.

L’ultimo concerto di Mama Africa
La sera del 9 novembre del 2008, proprio a Baia Verde, la cantante sudafricana Miriam Makeba aveva invece chiuso il suo concerto in onore delle vittime della strage di San Gennaro e in sostegno dello scrittore Roberto Saviano, minacciato dai Casalesi, con il bis di Pata Pata, la canzone che le ha conferito alla fine degli anni cinquanta un successo planetario. “Mama Africa”, voce per eccellenza di tutti i neri che si opponevano all’apartheid, era arrivata a Castel Volturno per cantare davanti ai suoi conterranei, in segno di riconoscimento di quello che rappresenta questa cittadina sudeuropea per l’intero continente nero.

Il destino ha voluto che al termine del concerto abbia avuto un malore e sia morta nel giro di pochi minuti. Poche ore prima aveva visitato il centro Fernandes, parlando a una platea composta quasi esclusivamente da africani: “Quando la gente vive separata, non si conosce e impara a essere sospettosa degli altri, ma quando la metti insieme impara a conoscersi e scopre che tutti noi, in quanto esseri umani, viviamo gli stessi problemi e che non dobbiamo avere paura gli uni degli altri”, aveva detto riferendosi ai ghetti riservati agli africani e alla separazione tra questi ultimi e i cittadini del luogo.

A ricordarla è un monumento nel quale il suo volto emerge dall’inconfondibile sagoma del continente africano, attorniato da sette fori di pallottola, quante furono le vittime della violenza camorristica. La sua morte ha chiuso simbolicamente un cerchio aperto quasi vent’anni prima da quella del suo connazionale Jerry Masslo e ha fatto di Castel Volturno, già “periferia dei Casalesi”, spicchio d’America partenopea, utopistica città giardino rovesciata in ghetto per gli espulsi dalla metropoli napoletana, pure l’indiscussa capitale dell’Africa europea.

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