“La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Nel bel mezzo della vita, noi siamo nella morte”, L’anno del pensiero magico, Joan Didion
È tornata al lavoro nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale San Gerardo di Monza dopo qualche giorno di malattia, il 24 marzo. Ma invece di andare in corsia, si è rinchiusa nel bagno dell’ospedale e si è tolta la vita. Daniela, 34 anni, infermiera, secondo i suoi familiari non aveva problemi psicologici pregressi, non sono stati trovati biglietti o messaggi per spiegare il suo gesto, ma per gli esperti e i colleghi il suicidio inaspettato dell’infermiera potrebbe essere legato alla situazione del tutto straordinaria che gli operatori sanitari stanno vivendo nelle corsie di terapia intensiva italiane a causa dell’epidemia di coronavirus: un confronto quotidiano con la malattia e la morte, un carico di lavoro senza precedenti che rischia di lasciare segni profondi.
Uno dei fattori più scioccanti è l’alto numero di morti, ma anche il decorso della malattia, che in certi casi è molto rapido. “I pazienti possono avere una specie di crisi sistemica, per cui entrano in ospedale che la malattia sembra sotto controllo, ma poi rapidamente la situazione degenera. Ci è capitato di dover informare una malata giovane che nell’arco di poche ore erano morti sia il padre sia la madre, mentre lei stessa era ricoverata”, spiega Damiano Rizzi, psicologo clinico che sta affiancando il personale medico e i familiari dei malati di coronavirus all’ospedale San Matteo di Pavia insieme ad altri dieci psicologi della Fondazione Soleterre.
“La difficoltà più grande per i medici è comunicare la morte del paziente ai familiari, comunicazione che di solito avviene al telefono”, continua Rizzi. “Ci si trova a intervenire su persone di cui non si conosce la storia, perché i malati arrivano in condizioni di salute già gravi, con problemi respiratori e quindi non riescono a raccontare nulla di sé”. I medici che da più di un mese si confrontano con questa sofferenza sviluppano sintomi ansiosi, insonnia, sono soggetti a incubi e a pensieri intrusivi e ricorrenti. Ma per il momento non ricevono nessuna forma di aiuto o sostegno, se non in rari casi.
La paura del virus
“C’è un’angoscia costante, unita alla paura di ammalarsi o di trasmettere la malattia ai propri familiari”. Dall’inizio dell’epidemia sono morti 63 medici in Italia e gli operatori sanitari contagiati sono 8.358. Rizzi spiega che la parte più importante del lavoro degli psicologi, ammessi nel reparto, in questo momento è quella di stare vicino ai medici, soprattutto a fine turno, quando sono esausti e spesso hanno attacchi di panico o di pianto. “Negli ospedali italiani è saltato tutto, la situazione è difficile da raccontare a chi è fuori. I medici fanno turni anche di dodici ore in ambienti in cui sanno di poter contrarre la malattia, vuol dire che il cervello di queste persone è in un continuo stato di allerta”, spiega lo psicologo, che per sei mesi seguirà, insieme a un’équipe, il personale sanitario dell’ospedale di Pavia.
Per Rizzi, sarà importate continuare a fornire assistenza quando la pandemia sarà finita, perché in quel momento molti potrebbero sviluppare i sintomi peggiori. “Vediamo professionisti che stanno mettendo in campo un’umanità enorme, all’ospedale di Pavia nessuno si sta tirando indietro, va tutto oltre il senso del dovere, ma dovrebbero essere attivati in tutti gli ospedali programmi di aiuto”, conclude. Il 27 marzo sei psicologi e psicoterapeuti (Giada Scifo, Claudia Berger, Corinne Oppedisano, Valentina Corica, Carlotta Ferrari, Davide Rotondi) hanno scritto una lettera al presidente del consiglio Giuseppe Conte, dopo il suicidio dell’infermiera di Monza, per chiedere che sia previsto il prima possibile un sostegno psicologico in tutti i reparti Covid-19 d’Italia.
“Caro presidente, oggi ci poniamo più di una domanda: come possiamo tutti noi osannare medici e infermieri, se poi li stiamo lasciando soli a gestire l’enorme carico emotivo che questa situazione comporta? Come può lo stato chiedere loro di essere eroici dimenticandosi delle fragilità umane con cui anche loro devono convivere?”, è scritto nella lettera.
“Siamo ancora nella fase in cui i medici e gli infermieri non si rendono pienamente conto del trauma che stanno vivendo, tutto sta avvenendo molto in fretta e molti di loro sentono soprattutto la stanchezza, si sentono esausti e la loro priorità è l’esigenza fisica di stare attenti durante il lavoro e dormire abbastanza durante le ore di riposo, c’è una specie di rimozione della fatica”, spiega Eva Pattis Zoja, psicoterapeuta che insieme a un gruppo di psicoterapeuti ha lanciato il progetto Accogliere le ferite di chi cura, per assistere il personale sanitario negli ospedali. La sensazione più comune da cui i medici sono sopraffatti è quella dell’impotenza di fronte alla malattia.
Dalla cura al prendersi cura
“C’è un fortissimo senso di colpa e d’impotenza dei medici che vedono morire le persone da sole in corsia, senza il conforto dei familiari”, spiega Pattis Zoja. Sviluppano la paura di essere infettati, ma anche il senso di colpa per il semplice fatto di provare questa paura. L’altro grosso problema è la mancanza di protocolli e di terapie specifiche: “Molti medici stanno prendendo delle decisioni velocemente e sentono la responsabilità di questa che sembra una missione impossibile”. Infine tutto è aggravato dalla mancanza di contatto con i malati. Tutto avviene a distanza. “Alcuni medici sono tormentati dagli sguardi spaesati dei pazienti dietro i respiratori, dalla loro profonda solitudine”, continua Pattis Zoja.
Nel corso della loro vita professionale tutti i medici hanno avuto esperienza di una malattia mortale o di una cura inefficace, ma in questo momento ci sono troppi fattori su cui non hanno controllo. “Nei nostri colloqui, proviamo a fargli fare un salto, a farli passare dal concetto di cura al concetto di ‘prendersi cura’, che significa che se anche la terapia per ora non è risolutiva, il medico può ‘prendersi cura’ del paziente, stargli accanto, alleviare le sue sofferenze”.
Nelle sedute che avvengono in videochiamata gli psicologi mettono in campo soprattutto l’ascolto: “La cosa più importante in questa fase è che le persone si sentano accompagnate e ascoltate da professionisti: poi cerchiamo di attivare le loro risorse interne positive, gli chiediamo dove vorrebbero essere, cosa vorrebbero fare, in quali immagini trovano sollievo”. Ognuno ha le sue risposte e le sue risorse, è un percorso molto soggettivo. C’è tuttavia anche un piano sociale e collettivo che non deve essere trascurato: nella nostra epoca avevamo escluso la morte dal discorso pubblico, come diceva già Jean Baudrillard non siamo “più capaci di affrontare la padronanza simbolica dell’assenza”.
Dall’Antigone di Sofocle, fino ai saggi di Sigmund Freud e Gustav Jung sul lutto, l’umanità ha sempre affrontato il tema della necessità dell’elaborazione della morte con riti sia fisici sia psichici di commiato. Lo storico francese Philippe Ariès in una serie di lezioni che tenne all’università Johns Hopkins nel 1973, poi pubblicate nel saggio L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, osservava che a partire dagli anni trenta del novecento nella maggior parte dei paesi occidentali c’era stata una rivoluzione nell’atteggiamento rispetto alla morte: “La morte così onnipresente nel passato da essere familiare, sarebbe stata cancellata, avrebbe dovuto sparire. Sarebbe diventata una vergogna e un tabù”.
Con l’esplosione della pandemia siamo stati costretti a farci i conti, anche se in una maniera del tutto particolare, perché non è possibile nemmeno celebrare i funerali, decine di bare sono state spostate dai luoghi in cui la malattia è stata più letale come Bergamo, per essere cremati in cimiteri lontani. Si parla soprattutto di numeri, ma non delle persone, delle loro famiglie, delle loro storie. Ognuno sta vivendo in casa e in isolamento la condizione del lutto, dello spaesamento e della perdita legate alla morte. Anche i familiari dei defunti non possono partecipare ai funerali e anzi sono spesso nella condizione più estrema della quarantena e dell’isolamento, proprio per essere stati a contatto con dei malati.
La necessità del rito
“Guarire questa ferita significa anche prendere coscienza del fatto che un’infinità di legami e di connessioni si sono interrotte, questo ha sconquassato la nostra vita. Si è spezzato soprattutto il legame essenziale che implica tutto il resto: quello tra i vivi e i morti”, spiega la dottoressa Pattis Zoja. Per la psicoterapeuta non si dovrebbe sfuggire al confronto con la dimensione del lutto e anzi si dovrebbero immaginare dei riti collettivi per accompagnare la sepoltura delle persone che sono morte, sarebbe importante per la salute mentale di tutti.
Molti, stando in casa, stanno sviluppando dei sintomi di ansia, di malessere, di sofferenza psicologica. Per certi versi questo è il segnale di un’esigenza più profonda, entrare in contatto con la propria paura, partecipare in qualche modo a quel rito che è la fine della vita di una persona e che riguarda tutti. Ma spesso si tende a guardare da un’altra parte, insorgono reazioni maniacali per impegnare il più possibile il tempo e riempire il vuoto, rimuovere la propria sensazione di angoscia o considerarla soltanto come l’effetto della clausura, del distanziamento sociale e della quarantena: “L’errore è quello di volere velocemente passare avanti, concentrarsi sul dopo, senza lasciarsi il tempo di confrontarsi davvero con il limite e la perdita”. Secondo la psicoterapeuta, questo tempo potrebbe essere un momento in cui ci si riconnette con il senso del limite e con la paura della perdita. Molti psicologi in Italia hanno attivato dei servizi di ascolto e di terapia da remoto e offrono sedute anche gratuite per chi in questi giorni sta affrontando questa sofferenza.
A Codogno, uno degli epicentri dell’epidemia, tutti gli psicologi della città di 16mila abitanti, circa una ventina di professionisti, hanno attivato un servizio di consulenza gratuita per la cittadinanza attraverso una pagina di Facebook. “Nelle prime settimane siamo stati contattati da poche persone, mentre nel corso del tempo sta aumentando notevolmente il numero di chi chiede un aiuto”, racconta Alessandra Locatelli, tra le ideatrici del progetto Psicologi in prima linea Codogno.
La difficoltà più grave è per quelli che hanno vissuto un lutto in prima persona. Ma ci sono molti che stanno soffrendo di attacchi di panico o stanno sviluppando sintomi ansiosi per la situazione generale di sospensione, causata dalla malattia e dall’insicurezza economica. Poi ci sono casi di violenza familiare aggravati dalla convivenza forzata e continuativa durante la quarantena. “Molte persone stanno facendo abuso di farmaci per curare l’insonnia, stanno sviluppando una sorta di dipendenza dalle informazioni, dai mezzi di informazione, si stanno concentrando sui dati, stanno sviluppando delle fobie”.
Ai casi meno gravi diamo il consiglio di darsi delle regole: “Organizzare la giornata, scandire il tempo con dei piccoli riti quotidiani, a volte organizzare anche ora dopo ora la propria quotidianità, fare ogni giorno qualcosa che ci sembra bella, anche solo dirsi una frase positiva a fine giornata”. Ma per l’elaborazione del lutto c’è un discorso molto più lungo da fare: “Già in condizioni di normalità l’elaborazione del lutto segue percorsi particolari, in questa situazione molti si chiedono quando riusciranno a portare un fiore o ad andare sulla tomba della persona amata”. Per Locatelli è fondamentale che a tutti sia fornita un’assistenza psicologica adeguata.
La retorica dell’eroismo può essere rischiosa per i medici
La stessa preoccupazione è condivisa da Lilian Pizzi, psicoterapeuta a lungo impegnata nella cura delle vittime di tortura e dei sopravvissuti ai naufragi nel Mediterraneo centrale, e che oggi fa parte di un’équipe di Medici senza frontiere impegnata nell’ascolto del personale sanitario degli ospedali in cui si stanno curando persone affette da Covid-19. “Chi ha lavorato nella migrazione negli ultimi dieci anni sa cosa significhi essere a contatto con la morte degli altri, per giorni o settimane di fila. Gli operatori della guardia costiera, delle agenzie internazionali e delle organizzazioni umanitarie hanno dovuto fare i conti con morti collettive, spesso senza disporre del tempo o dei mezzi per elaborare questi lutti”, afferma la psicologa.
Gli operatori umanitari dopo i naufragi e i medici negli ospedali sono obbligati a compiere scelte che innescano una serie di domande: “Ho fatto tutto quello che potevo? Potevo fare di più?”. Sono dubbi che se non elaborati, “potrebbero diventare memorie incistate, nuclei di sofferenza e confusione che rischiano di ripresentarsi nel periodo successivo all’emergenza sotto forma di quello che la psicologia definisce trauma vicario”.
Non servono eroi
Pizzi spiega che in situazioni d’emergenza c’è una fase cosiddetta eroica in cui i medici sono concentrati sull’obiettivo, hanno l’attenzione dei mezzi d’informazione, ci sono gare di solidarietà di personalità dello spettacolo e di cittadini. Tuttavia la retorica degli eroi usata per definire il lavoro dei medici è molto rischiosa, perché tende a caricare ancora di più sulle spalle dei singoli la responsabilità di quello che sta succedendo, deresponsabilizzando la collettività.
“Come sappiamo dalla tragedia greca gli eroi sacrificano la propria vita nella speranza e in nome di un bene comune. Per quanto si tratti di una posizione nobilissima, per la psicologia dell’emergenza la retorica dell’eroismo è uno dei principali fattori di rischio per sviluppare successive sindromi da burn out e, in alcuni casi, mettere in atto comportamenti rischiosi durante il lavoro”.
Anche per questo, secondo la psicoterapeuta, si dovrebbe avere il coraggio di usare chiavi di lettura più ampie e non ridurre la psicologia a delle semplici tecniche di attenuazione dello stress durante una fase critica. Quello che accade negli ospedali e nelle case degli italiani in questo momento è molto legato, anche se sembra distante. Sarebbe un errore non creare dei “varchi”, dei momenti di ascolto ed elaborazione collettiva delle conseguenze della pandemia. “Si dovrebbero attivare da subito al livello governativo dei programmi d’intervento psicologici di lungo corso, sia individuali sia collettivi, che permettano di cominciare a elaborare quello che sta succedendo. In questo momento la psicologia non dovrebbe limitarsi a fornire soltanto strumenti di lavoro e intervento individuali, ma dovrebbe provare ad aprire una riflessione più ampia sulle cause della sofferenza”. Solo in questo modo potrà essere avviata una fase di ricostruzione.
“Pochi fenomeni nella storia umana hanno modificato la società e la cultura come le pandemie, ma nonostante questo le scienze sociali e la psichiatria hanno destinato relativamente poca attenzione a studiarne gli effetti”, conclude lo psichiatra Damir Huremovic nel suo saggio Psichiatria delle pandemie.
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