27 aprile 2020 14:14

Con un figlio di tre anni a casa, l’asilo nido chiuso, i nonni in un’altra regione e la baby sitter in isolamento, per lavorare in pace durante la quarantena ha cominciato a scappare sul terrazzo condominiale, che si è trasformato in un ufficio a cielo aperto nei giorni di sole per trovare un po’ di concentrazione.

Donata Columbro è una freelance e di solito lavora in un coworking a Roma, una scrivania che ha affittato insieme ad altri, dopo aver portato suo figlio Filippo a scuola. Ma, adesso, come milioni di altre donne italiane ha dovuto cambiare radicalmente le sue abitudini di vita e di lavoro, soprattutto per quanto riguarda la gestione e la cura del bambino.

Ora è spaventata per ciò che l’aspetta nei prossimi mesi, con le scuole che rimarranno chiuse molto probabilmente fino a settembre. “I primi giorni ho provato un forte senso di frustrazione, un po’ per l’angoscia dovuta alla situazione, un po’ per il fatto di lavorare da casa. Ero molto meno produttiva”, racconta Columbro, originaria di Orbassano, in Piemonte, che vive con suo marito e suo figlio a Roma, e lavora come consulente e analista di dati. “Lavorando come freelance ho sempre dovuto negoziare con il mio compagno i miei spazi di lavoro, da quando è nato Filippo. Noi donne ci occupiamo di tutto di solito, trovare una baby sitter, organizzare il tempo della famiglia e dei figli. A mio marito avevo posto la questione della condivisione della responsabilità dal principio”, ricorda.

Problema ignorato
Ma l’epidemia ha spezzato gli equilibri faticosamente raggiunti in molte famiglie italiane, con il risultato che tante donne si sono trovate a lavorare da casa, dovendosi occupare anche dell’istruzione dei figli, della loro salute, dei pasti e delle incombenze domestiche. Improvvisamente sono ricaduti sulle loro spalle tutti quei lavori che avevano affidato alla scuola o ad altre figure come i nonni, le baby sitter e le colf. “Mio marito lavora in un ufficio stampa e in queste settimane ha lavorato da casa. Abbiamo ragionato su come organizzarci nella cosiddetta fase due: credo che ogni coppia dovrebbe farlo, provando a condividere l’impegno del lavoro, della cura dei figli e della casa”.

Con la ripresa delle attività produttive il 4 maggio, sempre più donne si troveranno nella difficoltà di conciliare il lavoro con i figli

Questo non è possibile per tutte le donne, che spesso lavorano e guadagnano meno dei propri compagni e quindi potrebbero dover rinunciare al loro lavoro a causa della pandemia e della crisi economica che ne conseguirà. “Mi sembra assurdo che il governo non si stia ponendo il problema per la fase due, quando milioni di lavoratrici dovrebbero tornare al lavoro, di chi si occuperà dei loro figli, con le scuole chiuse e i nonni fuorigioco per via delle misure di distanziamento sociale”, conclude Columbro.

Federica Manente è in maternità dopo la nascita del secondo figlio, ma sta già pensando a cosa succederà a settembre se le scuole non dovessero riaprire: “Mi sento una miracolata perché per ora sono in maternità, ma sono preoccupata perché vivo a Reggio Emilia, anche se sono veneta, e non posso farmi aiutare dai nonni. Che poi anche potendo non potrebbero occuparsi di una bambina di tre anni per dieci ore al giorno”, continua. “Baby sitter a oltranza? Per quello che guadagno tanto vale licenziarsi”.

Quali soluzioni?
Già prima dell’epidemia in tutta Europa le donne in media trascorrevano tredici ore alla settimana in più degli uomini a occuparsi della casa e della famiglia. Con l’emergenza sanitaria, il lavoro domestico non retribuito è aumentato in maniera considerevole per le donne. Questa situazione è ancora più grave per i genitori single, che in Europa sono donne nell’85 per cento dei casi. Secondo l’European institute for gender equality (Eige), la metà dei genitori single è a rischio povertà.

Inoltre le donne guadagnano in media il 16 per cento in meno rispetto agli uomini e secondo il Center for economic policy research, una rete di economisti con sede a Londra, le donne saranno più esposte alla perdita del lavoro, perché hanno generalmente contratti peggiori e meno garantiti, e il divario tra i loro stipendi e quelli degli uomini è destinato ad allargarsi. È come se l’epidemia avesse portato alla luce tutte le disuguaglianze e tra queste quella fondamentale tra uomini e donne.

Infine poche donne sono in posizioni dirigenziali anche nella gestione dell’emergenza sanitaria e questo fa pensare che le classi dirigenti europee presteranno poca attenzione a questo aspetto. In Italia, con il decreto economico Cura Italia sono state concepite due misure di sostegno per le donne che lavorano, il bonus baby sitter e l’estensione del congedo parentale.

Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, durante la conferenza stampa del 26 aprile, ha detto che sono state presentate 78mila domande per il bonus per la baby sitter (un contributo una tantum di 600 euro) e 237mila richieste di congedi parentali straordinari a partire dal 9 marzo. Si tratta tuttavia di misure ancora insufficienti per far fronte al fabbisogno delle famiglie italiane. Secondo i dati diffusi da Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat, le donne che hanno continuato a lavorare sono i due terzi delle lavoratrici. E con la ripresa delle attività produttive il 4 maggio, sempre più persone si troveranno nella difficoltà di conciliare il lavoro con i figli.

Alcuni politici e amministratori locali hanno lanciato delle idee per sostenere il welfare rivolto soprattutto alle lavoratrici, ma i loro appelli sono rimasti quasi del tutto inascoltati dal governo. Il sindaco di Ravenna, Michele de Pascale, ha proposto di riaprire gli asili nido e le scuole dell’infanzia, sfruttando gli spazi all’aperto e i musei. Alcuni hanno proposto una sorta di “aspettativa covid” per non trasformare le lavoratrici in casalinghe. Un gruppo di ricercatrici, con l’appello Verso una democrazia della cura, ha lanciato la proposta di sostenere il lavoro di baby sitter, colf e badanti, che sono così centrali in questo momento per le famiglie, e per le quali non è stato previsto alcun ammortizzatore sociale nel decreto Cura Italia.

“Come evidenzia da decenni la teoria politica femminista, in gioco è il modello antropologico su cui si fondano le forme della convivenza sociale”, spiega la ricercatrice Giorgia Serughetti, autrice insieme a Cecilia d’Elia di Libere tutte. “Contro il mito dell’autonomia di matrice liberale, reinterpretato dal neoliberalismo come capitale umano in competizione con altri (Wendy Brown), l’enfasi posta dal pensiero femminista sulla condizione di vulnerabilità dell’essere umano induce un completo rovesciamento dello sguardo sulla politica, rispetto a una tradizione che ha espulso il corpo (e le donne, insieme ad altri soggetti inferiorizzati) dalla polis. Induce, cioè, a riconcepire i compiti della collettività verso i suoi membri partendo dalla corporeità, dai bisogni, dai rapporti di dipendenza dell’essere umano con gli altri e con l’ambiente naturale e sociale, dalle infrastrutture sociali necessarie alla vita”.

Per il momento, tuttavia, il governo italiano nel piano per la fase due, annunciato da Conte il 26 marzo, non sembra aver preso in considerazione questo cambiamento di prospettiva e nelle prossime settimane molte donne e molte lavoratrici si troveranno di fronte al dilemma di come conciliare il lavoro con i figli, lasciate da sole ancora una volta di fronte a una questione che riguarda l’intera società. “Di cosa hanno bisogno i pazienti di una pandemia? Di assistenza. E gli anziani in isolamento? Di assistenza. E i bambini che non vanno a scuola? Di assistenza. A causa dell’attuale struttura della forza lavoro, tutta questa assistenza, questo lavoro di cura non retribuito, ricadrà sulle spalle delle donne”, spiegava all’Atlantic Clare Wenham, docente associata di politiche della salute alla London School of Economics. Una questione che ci fa tornare indietro di decenni.

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