29 agosto 2016 15:21

Fa caldissimo a Beirut ad agosto, l’aria è rovente. Non è solo questo a fiaccare lo spirito, ma è soprattutto l’ertubeh, l’umidità. Dicono che questa estate abbia raggiunto picchi del 100 per cento. Se non hai la “ac”, l’aria condizionata, è difficile sopravvivere in città. Case, taxi, pulmini, ristoranti: tutti con l’aria condizionata accesa, in genere impostata a 16-17 gradi. Fuori, i gradi percepiti sono circa 45, mentre quelli reali, dicono, sono poco più di 30.

Un condizionatore perfettamente funzionante fa bella mostra di sé anche nel centro culturale Jafra meeting place, che si trova nel campo palestinese di Bourj el Barajneh, periferia sud di Beirut. Jafra non dista molto dall’ingresso principale del campo, che dà sulla vecchia, trafficatissima strada di collegamento tra Beirut e l’aeroporto. È al primo piano di un palazzo che ospita anche un ufficio di Medici senza frontiere.

C’è scritto maftuh (aperto) sulla porta d’ingresso: tre sale colorate, un bancone da bar, tavoli e poltrone, una lavagna, una piccola biblioteca, un murales dedicato al poeta palestinese Mahmud Darwish (1941-2008) e un altro allo scrittore palestinese Ghassan Kanafani (1936-1972). La foto di Yasser Arafat è appesa di fronte all’entrata. Sopra la porta c’è il logo di Jafra e una scritta: “Jafra 48… al-hobb wal-fikra” (Jafra 48, l’amore e l’idea).

“Abbiamo comprato il condizionatore grazie alla collaborazione con una ong con cui stiamo organizzando un workshop: aiuterà i giovani del campo a realizzare i loro progetti imprenditoriali”, racconta Ashraf el Chouli, la mente, lo spirito e il cuore di Jafra.

Volevo che i libanesi venissero nel campo per conoscere la realtà di Bourj e fargli vedere che anche qui possono succedere cose belle

Ashraf non è di Bourj: è nato nel campo palestinese di Rachidiyyeh, vicino a Tiro, nel sud del Libano. Si è trasferito a Beirut per fare il musicista: dopo aver lavorato come esperto nella protezione dell’infanzia per varie ong internazionali, oggi si esibisce sui palchi underground di Beirut, dove suona l’oud e canta con la sua band. L’idea di aprire Jafra nel campo di Bourj ce l’aveva da tempo, ma non aveva mai avuto l’opportunità economica, che è invece arrivata nel 2015.

Le scuse dei libanesi

“Ho aperto Jafra poco più di un anno fa con i miei soldi, senza ricevere fondi da nessun partito o movimento politico. Volevo infrangere gli stereotipi che i palestinesi e i libanesi nutrono gli uni nei confronti degli altri. Volevo che i libanesi venissero nel campo per conoscere la realtà di Bourj e volevo fargli vedere che anche qui possono succedere cose belle. Perché se è vero che la guerra civile è finita nel 1990, i pregiudizi da entrambe le parti sono ancora ben presenti”.

E quindi alle serate dedicate alla poesia, ai pranzi palestinesi, ai concerti per oud e alle proiezioni di film sono venuti anche tanti libanesi che non erano mai stati prima a Bourj el Barajneh .

Una famiglia palestinese nel campo profughi di Bourj el Barajneh, Beirut, nel 2013. (Sam Tarling, Corbis via Getty Images)

“Abbiamo suonato e pranzato insieme, e poi i miei ospiti libanesi sono venuti per chiedermi scusa per quello che pensavano di noi palestinesi. Credevano che fossimo tutti terroristi, che nel campo ci fosse posto solo per le armi e nient’altro. Mi hanno detto: scusaci, è che le nostre famiglie ci hanno raccontato queste cose”.

I pregiudizi funzionano anche al contrario: tra i palestinesi è ancora acceso il ricordo del massacro di Sabra e Chatila del 1982 e molti della comunità considerano tutti i libanesi maroniti come esponenti delle Forze libanesi, coresponsabili dell’eccidio insieme all’esercito israeliano.

Quando Ashraf ha portato i suoi amici cristiani nel campo, la prima reazione degli abitanti è stata di estrema diffidenza: “Gli ho fatto conoscere il mio amico Wael, un cristiano, e ho detto a tutti: ‘Wael è cristiano e ama la Palestina più di me’. Hanno tutti sgranato gli occhi. È stato un piccolo shock, ma è servito. Ora non fanno più problemi, e accettano chiunque venga, perché è passato il messaggio che, come ovunque, ci sono le brave persone come quelle cattive”.

Un luogo aperto a tutti

Centro culturale, punto di incontro, biblioteca (una ong ha donato a Jafra 500 dollari in libri), bar, sala per concerti: Jafra è molte cose insieme, ma soprattutto è una boccata d’aria fresca per una zona sovraffollata dove vivono 44mila persone in pochissimi chilometri quadrati. Un fazzoletto di terra abitato da palestinesi, siriani, palestinesi-siriani e tante altre nazionalità. Non c’è più posto per costruire orizzontalmente in questo campo-città, e allora si aggiungono piani su piani alle case, già precarie. Chilometri e chilometri di cavi elettrici e condutture idriche sospesi nell’aria ricoprono il campo come un tetto. Ogni tanto qualcuno rimane folgorato, si registrano almeno due o tre morti ogni anno. C’è uno striscione appeso tra i palazzi, con la foto di un ragazzino sorridente dalle guance paffute: è l’ultima vittima in ordine di tempo.

Ma Bourj è anche uno dei pochi campi palestinesi aperti: non c’è bisogno di un permesso dell’esercito libanese per entrare, come accade invece a Rachidiyyeh. E questo ha consentito ad Ashraf di far diventare Jafra un luogo aperto a tutti: libanesi, palestinesi, stranieri. E uomini e donne. Al contrario di altri caffè del campo, Jafra è l’unico posto dove ragazzi e ragazze possono stare insieme. Non è d’uso infatti per le donne frequentare i caffè dove stazionano gli uomini, che passano i pomeriggi a fumare il narghilè giocando a backgammon.

Questo ha creato qualche diffidenza iniziale tra quei (pochi, dice Ashraf) conservatori che vivono a Bourj. Tra i clienti e gli amici del locale ci sono tanti giovani, studenti, universitari. “La nuova generazione di abitanti del campo è diversa, per fortuna. Per esempio, anche se le ragazze indossano l’hijab, portano comunque veli colorati, non quelli neri, lunghi e stretti sul viso”.

Jafra collabora anche con il centro Insan che assiste i tossicodipendenti e li aiuta nella ricerca del lavoro

Nell’ultimo anno da Jafra sono passati molti artisti, compreso Mohammad Assaf, il protagonista di The idol che ha improvvisato un concerto alle 2 del mattino a cui “hanno partecipato tutti”. Con il sostegno di Medici senza frontiere, Ashraf di recente ha anche potuto aprire uno studio di registrazione per i tanti rapper del campo, soprattutto siriano-palestinesi. Ha stabilito anche una collaborazione con il centro Insan che cura i tossicodipendenti del campo, che dopo la riabilitazione sono sostenuti nella ricerca di un lavoro.

Eppure il futuro del locale è incerto: “Abbiamo i soldi per pagare l’affitto solo fino a dicembre, quando ci scade il contratto. Stiamo facendo una colletta tra amici e sostenitori di Jafra e speriamo di poter restare aperti. Ma non voglio accettare soldi da ong per poi dover mettere il loro logo all’interno, né voglio trasformare Jafra in una ong. Se qualcuno vuole aiutarci, lo può fare comprando direttamente materiali come libri o caffè, o aiutandoci a comprare quello che manca per arredare il locale”.

Il condizionatore non smette di ronzare, fa un baccano quasi assordante. I volti di Darwish e Kanafani si guardano dalle pareti: forse si chiedono per quanto ancora potranno vegliare sui libri della biblioteca e sui loro giovani lettori.

“Ai vivi [spetta] cantare / Noi siamo ancora qui/ a portare il peso dell’eternità” (M. Darwish).

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