11 gennaio 2021 11:13

Fabiana Bianchini lavora come custode agli Uffizi dal 1986. Ne ha visti passare di visitatori. A folti gruppi sgusciavano in una sala, pochi secondi ed eccoli in un’altra, poi in un’altra ancora. Solo davanti al Tondo Doni di Michelangelo o all’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano la sosta era di qualche minuto. Lei doveva stare attenta che non si avvicinassero troppo. I quadri li aveva davanti agli occhi ogni giorno, ma era come se non li vedesse. Quando le hanno proposto di sceglierne uno per verificare se potesse intrecciarsi con qualche esperienza della sua vita e poi di trarne un racconto, ha indicato L’annunciazione di Cestello e Cristo in pietà di Sandro Botticelli. Il movimento delle mani e gli occhi di Maria davanti all’arcangelo Gabriele le comunicavano l’ansia dell’attesa, la stessa che provò lei quando seppe di avere in grembo una figlia, che, una volta nata, sarebbe diventata altra da sé.

Da quel momento per Fabiana il quadro di Botticelli non sarebbe stato più solo uno dei tanti da sorvegliare. Il suo racconto è in un video sul sito degli Uffizi, all’interno di un progetto intitolato Fabbriche di storia e realizzato tra il 2018 e il 2019 su impulso del direttore Eike Schmidt, del dipartimento Mediazione culturale del museo e di due curatrici esterne, Simona Bodo e Maria Grazia Panigada.

La stessa proposta è stata fatta ad altre nove persone, quasi tutte immigrate da tempo a Firenze. Ogni narrazione è stata poi affidata a un attore (tra gli altri, Marco Paolini, Marco Baliani e Lella Costa; Maria Pajato ha letto il testo di Fabiana), tradotta in inglese e nella lingua di chi raccontava, dall’arabo al cinese a un idioma del Benin. L’intenzione, spiega Simona Bodo, “era di mettere in relazione il museo con qualcuno che non fosse il turista frettoloso, con un pubblico più prossimo al museo, che vive nella stessa città, nello stesso quartiere o che nel caso di Fabiana lavora al museo, ma che paradossalmente non è il pubblico che frequenta il museo. Contemporaneamente, usando il metodo narrativo, si provava a sollecitare una visita meno sbrigativa, più consapevole, più stanziale, perché capace di produrre dentro di sé non banali analogie, ma risonanze inattese”.

Può servire la storia di Fabiana ai musei, ai siti monumentali e archeologici che guardano al dopo covid-19, compresi quelli che per qualche anno potranno contare meno di un tempo su frotte di turisti e sui biglietti staccati per loro? Cosa inventeranno i musei o cosa recupereranno della loro ragion d’essere dopo anni in cui le performance sono state misurate principalmente conteggiando l’incremento dei visitatori? Le porte restano serrate, le proteste per riaprirle salgono di tono, ma intanto si accende il dibattito sul ruolo che il patrimonio culturale potrà svolgere nel prossimo futuro.

Un cambio di passo
Durante i mesi del confinamento si è ricorsi al digitale per tenere attivo un canale di comunicazione, si sono sperimentati nuovi linguaggi, ma, si sente ripetere, non basta trasferire online il contenuto delle collezioni o anche organizzare su piattaforme virtuali seminari, approfondimenti e visite guidate. Occorre fare un passo avanti, sfruttando al meglio il web, ma interrogandosi e incidendo sulla propria natura, senza travisarne lo statuto culturale o esercitandosi in diavolerie spettacolari e di mediocre commercializzazione. Il museo, insomma, come “servizio pubblico”, assecondando ed esaltando quanto prescritto già nel codice dei beni culturali e del paesaggio (2004).

Hanno cominciato con un appello-manifesto Sylvain Bellenger (direttore del museo e della reggia di Capodimonte a Napoli), Sergio Risaliti (che guida il museo Novecento a Firenze) e Giovanni Iovane (alla testa dell’Accademia di Brera a Milano). Su Artribune hanno evocato la necessità che i musei siano luoghi di conservazione, di ricerca, ma diventino anche “campus dinamici, poli culturali”, vale a dire, laddove gli spazi lo consentano, “luoghi interdisciplinari di residenze artistiche e di laboratori creativi, istituti di formazione e perfezionamento per curatori, restauratori e mediatori culturali”. Il tutto in nome “di un nuovo e diverso posizionamento in ambito culturale e sociale”.

La necessità di cambiare passo è dettata dalla coscienza che almeno per qualche anno la riserva del turismo di massa sarà scarsa. Nei soli 460 fra musei, aree archeologiche e monumentali di proprietà dello stato (su un totale di quasi cinquemila istituti culturali facenti capo anche a privati, comuni, diocesi…) sono entrati nel 2019 poco meno di 55 milioni di visitatori: molti di più dei 40 milioni del 2014. L’incasso del 2019 ha raggiunto i 243 milioni. Era di 135 milioni cinque anni prima. La crescita è stata vistosa, ma concentrata, segnala l’Istat, in dieci luoghi, dal Colosseo a Pompei, dagli Uffizi alla Galleria dell’accademia di Firenze, che hanno accolto il 42 per cento dei visitatori. Basandosi sulle rilevazioni degli anni precedenti, l’Istat stima che a fine 2020, senza il covid-19, si sarebbero raggiunti 59 milioni di visitatori. Nei mesi di marzo, aprile e maggio, il numero di mancati ingressi nei musei statali – è ancora una stima dell’Istat – è stato pari a circa 19 milioni, con una perdita di 78 milioni.

“Un museo dev’essere qualcosa di più di una collezione da visitare”, insiste Bellenger, anche alla luce di questi dati. Da quando è arrivato a Napoli, nel novembre del 2015, ha spinto perché la pregiatissima pinacoteca di Capodimonte, che va da Simone Martini a Sol LeWitt, vivesse in rapporti più stretti con il Real Bosco in cui è immersa, 134 ettari progettati nel 1734 da Ferdinando Fuga. “Fino al 2015”, racconta Bellenger, “il bosco dipendeva da un’altra soprintendenza, era un corpo separato. Abbiamo fatto in modo che fosse invece la cerniera con una città che ha fame di verde pubblico, un bosco civico aperto a tutti, al centro di quartieri dov’è acuto il disagio: ora non si può più giocare a pallone sulle aiuole, ma in un angolo del parco ci sono un campo di calcio e uno di rugby, c’è lo spazio per i cani e ci sono 170 nuove panchine con la targhetta di chi le ha adottate”.

Le operazioni di sanificazione in una sala dei Musei capitolini, Roma, 19 maggio 2020. (Alessandra Benedetti, Corbis via Getty Images)

Anche il bosco è un museo, con quattrocento specie vegetali, una collezione di piante esotiche e poi un giardino anglo-cinese e uno tardo barocco. È stato approntato un master-plan e si stanno ristrutturando i 17 edifici sette-ottocenteschi al suo interno. In uno è ospitato un istituto scolastico, mentre quello chiamato La Capraia è affidato a un centro di ricerca sulle città portuali dell’università del Texas con appartamenti per undici borsisti. Altri quattro appartamenti sono dietro la chiesa di San Gennaro, appena riallestita da Santiago Calatrava, dove alloggeranno artisti provenienti da tutto il mondo che riattiveranno le produzioni di porcellana, uno dei vanti del settecento napoletano.

Il museo di Capodimonte continuerà ad attirare visitatori, ma intanto si propone come spazio di comunità, aperto ai quartieri in cui insiste, tra questi il rione Sanità, e dove da tempo un altro prezioso bene culturale, le catacombe di San Gennaro e di San Gaudioso, sono diventate un polo di rigenerazione sociale, di riscatto da un destino malavitoso e le cooperative che sono sorte danno lavoro a più di un centinaio di giovani.

I musei saranno i luoghi dove ci si deve sentire cittadini

“Nei musei deve formarsi la creatività essenziale nel mondo postindustriale”, ribadisce da Firenze Sergio Risaliti, che ha destinato sette appartamenti e altrettanti atelier del museo Novecento a ospitare giovani artisti. “I musei saranno i luoghi dove ci si deve sentire cittadini e dove si educano il gusto contemporaneo e capacità cognitive complesse”, aggiunge lo storico dell’arte. “Nel passato recente ci siamo piegati troppo sull’attrattività del turismo di massa, diventato una rendita di posizione, e abbiamo confezionato percorsi museali al fine di un ritorno economico, sia diretto – cataloghi, merchandising e così via – sia indiretto – bar, ristoranti, b&b. Il trauma della pandemia ci ha consegnato città d’arte al collasso”.

Non si parte dall’anno zero per recuperare un profilo di bene culturale alternativo a quello della macchina tarata per staccare biglietti. Le esperienze sono tante e risalgono agli ultimi decenni, alcune hanno avuto continuità, altre si sono interrotte. L’associazione Patrimonio di storie, nata nel 2011 e patrocinata da Simona Bodo, Maria Grazia Panigada e Silvia Mascheroni, ne censisce diverse sul suo sito. Si devono alla consulenza delle sue animatrici iniziative come Fabbriche di storie agli Uffizi, preceduta da due analoghi cicli a Brera, curati insieme alle storiche dell’arte della pinacoteca Emanuela Daffra e Paola Strada, Brera: un’altra storia (2013) e Raccontamibrera (2014). In quest’ultimo caso i narratori erano addetti alla vigilanza del museo, nel primo sono state formate alle tecniche narrative otto persone provenienti da Bosnia, Brasile, Egitto, Filippine, Perù, Senegal e Ungheria, oltre a un italiano. A tutti si è chiesto di scegliere un’opera e di confezionare, con la supervisione del personale scientifico del museo, un racconto con materiali delle rispettive culture e delle loro esperienze di vita.

I cicli di Brera si sono interrotti, ma per Silvia Mascheroni “questa è una via che proponiamo di percorrere per conquistare nuovi pubblici, in particolare quelli di prossimità”. Secondo Mascheroni, è fondamentale il ruolo di mediazione culturale che i musei, con i loro repertori di storie, possono svolgere nei confronti dei cittadini stranieri, immigrati di prima e di seconda generazione. Non si ricorre alle tradizionali visite guidate: “La narrazione”, aggiunge la storica dell’arte, “va intesa come elemento costitutivo di una relazione tra persone, non nella sua forma persuasiva, come viene usata adottando il termine storytelling in ambito politico o aziendale”.

L’esperienza del narrare, aggiunge Mascheroni, consente di formare “comunità patrimoniali”, come suggerisce la convenzione di Faro del Consiglio d’Europa del 2005. Mette cioè in relazione stretta un bene culturale con l’ambiente che lo ospita, con le scuole, le associazioni e in genere le persone che lo sentono proprio con costanza, più di quanto possa fare un turista di passaggio. Conserva, tutela e promuove attività culturali. Coopera ad alleviare disagio e sofferenze, si propone di fronteggiare povertà educative.

Sperimentazioni
In questa direzione s’intensificano anche le riflessioni. Lo dimostra Elisa Bonacini con il volume I musei e le forme dello storytelling digitale(Aracne), che mette insieme i tanti modi di costruire una storia a partire da ciò che un museo custodisce, sottolineando le potenzialità virtuose delle nuove tecnologie, ma anche la capacità che un’istituzione culturale deve possedere di connettersi con i nuovi pubblici. Sulla stessa linea si colloca da tempo Archeostorie, il web magazine diretto dall’archeologa Cinzia Dal Maso, e dalla cui redazione nasce il libro Branded Podcast, curato da Chiara Boracchi (Flaccovio).

Una sala del museo Egizio di Torino, 2 giugno 2020. (Mauro Ujetto, NurPhoto via Getty Images)

Le realtà museali attive in una sperimentazione utile per dopo la pandemia sono differenti per dimensioni e per tipologia e sono diffuse in molte regioni. Oltre agli Uffizi, a Capodimonte e a Brera, ecco a Roma il Luigi Pigorini e il museo civico di zoologia, l’Egizio e la fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino, il Correr a Venezia, il museo nazionale archeologico di Napoli e anche il museo etrusco Claudio Faina di Orvieto.

Il museo civico archeologico ed etnologico di Modena ha condotto diverse iniziative coinvolgendo soprattutto immigrati. “Nasciamo nel 1871 come museo della città”, dice la curatrice Cristiana Zanasi, “per questo abbiamo voluto ridefinire il nostro ruolo in una città diventata multiculturale. Un museo non deve solo trasmettere il suo patrimonio a chi lo visita, ma ne deve condividere il senso con una comunità in trasformazione”. Nel 2009 nasce la prima iniziativa, Choose the piece: in accordo con l’Istituto beni culturali dell’Emilia Romagna e con il Centro territoriale permanente (Ctp), che si occupa di educazione degli adulti, è stato chiesto a sessanta studenti immigrati di adottare un pezzo custodito nel museo, che così ha assunto un significato più contemporaneo, oltre quello proprio di reperto archeologico.

Dal 2012 al 2016 sono seguiti altri tre progetti, in cui s’incrociavano i reperti custoditi nel museo “rinegoziandone il valore con le storie di chi era arrivato in città da molto lontano”, spiega Zanasi. La prima mostra si intitolava This land is your land. Poi si è passati a Strade. Al museo s’intrecciano le strade del mondo. Quindi ci si è concentrati sull’Albania in Modena-Tirana. Andata e ritorno. “L’impegno più entusiasmante”, racconta Zanasi, “è stato dedicato agli incontri preparatori alle singole mostre, uno ogni due settimane per dieci mesi, da cui tutti noi operatori abbiamo imparato moltissimo”.

Le mostre modenesi si sono fermate nel 2016 per far posto ad altre iniziative. “Quelle esperienze hanno bisogno di continuità”, dice Zanasi, “e purtroppo non siamo riusciti a coinvolgere gli immigrati nelle attività ordinarie del museo. Ma è questa la strada da perseguire. Ne avvertiamo la necessità, nonostante si sia affievolito l’atteggiamento inclusivo che in quegli anni respiravamo intorno a noi”.

“Il covid-19 segna un punto di non ritorno”, incalza Giovanna Brambilla, responsabile dei servizi educativi della Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo. Dal 2007 la Galleria ha tenuto corsi di storia dell’arte e formato 33 mediatori provenienti da diversi paesi, per accompagnare nel museo gruppi di immigrati e per progetti interculturali, seminari per studenti universitari, corsi di aggiornamento per docenti. “Non è una novità che i musei da luogo di studio diventino anche presidi di cittadinanza e di partecipazione”, aggiunge Brambilla. “Noi ci muoviamo nel solco dell’articolo 27 della dichiarazione dei diritti umani, per la quale ogni individuo ha diritto di prendere parte alla vita culturale della comunità”.

I nuovi pubblici a cui si è rivolto negli anni il museo di Bergamo sono i bambini e i ragazzi, per i quali sono allestiti laboratori, e poi i detenuti della casa circondariale e le persone anziane, comprese quelle con disabilità e Alzheimer. Il rapporto con il carcere va avanti dal 2006. Gli educatori del museo sono andati lì a illustrare le opere della collezione e hanno aiutato a realizzare installazioni che poi venivano esposte. L’estate scorsa la direttrice del carcere, preoccupata per le condizioni dei detenuti sottoposti a ulteriori restrizioni a causa della pandemia, ha chiesto aiuto al museo che ha rapidamente organizzato incontri dietro le sbarre per approfondire opere da Caravaggio a De Chirico. “Per il futuro con l’associazione Homo, con gli studenti delle superiori e con Maria Grazia Panigada, specialista di narrazione teatrale, lavoreremo direttamente in carcere”, annuncia Brambilla.

Pur con le porte sbarrate, dai musei si guarda al dopo pandemia non solo immaginando per sé una correzione di rotta, ma anche chiedendo che la correzione la compia chi governa i beni culturali. Avvisa da Napoli Sylvain Bellenger: “Da marzo a Capodimonte resteremo con un solo funzionario storico dell’arte mentre rimane vacante il posto di direttore amministrativo. Questo è l’esito di un’autonomia lasciata a metà dalla riforma, che attribuisce la gestione del personale non al direttore del museo ma al ministero, per cui andiamo avanti con contratti di consulenza che durano due anni e che non possiamo rinnovare. Spesso mi sento come un generale senza esercito che si adatta con soluzioni temporanee che hanno un po’ del miracoloso”.

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