19 agosto 2020 10:04

“Prima di andare a letto, beviti un sonno perfetto”. La venditrice indossa una fascia rossa trasversale su cui è scritto uno slogan che anche lei ripete di continuo, quasi gioiosamente. Un mantra che dovrebbe convincere la cittadinanza di Taiyuan – capoluogo dello Shanxi – a bere latte prima di andare a dormire.

Poco distante, una donna anziana vende uova di gallina, quaglia, oca, anatra. Diversifica l’offerta, la signora, la sua bancarella non è neppure una bancarella perché tutta la mercanzia sta per terra, dentro a grosse scatole. Lei però è digitalizzata, la clientela paga facendo la scansione del codice QR con WeChat o Alipay, le applicazioni passpartout nella Cina del nuovo millennio. La figlia della signora spiega che la loro piccola attività a gestione familiare si basa su una supply chain a cui concorrono i vicini di casa, che recuperano le uova in campagna e poi le consegnano a madre e figlia, la prima linea nel mercato di strada: “Le nostre uova costano 20-30 centesimi meno di quelle del supermercato”, dice la giovane. “Prima non facevamo questo lavoro, adesso che si può, ne abbiamo approfittato”.

I banchetti improvvisati emettono un chiasso stupefacente da altoparlanti che ripetono all’infinito le stesse frasi. E dove non c’è l’impianto, c’è qualcuno che urla. Si commercia di tutto, cover di telefonini, bibite, cibo, giocattoli, vestiti, ma anche auricoloterapia di strada, cioè l’agopuntura alle orecchie che alcune intraprendenti ragazze ti fanno sul posto. È dolorosissima, ma dicono che faccia bene. La giovane terapista ti comprime il lobo e altre parti con dei cerottini che contengono spilli, ti chiede se fa male, se rispondi di no schiaccia più forte. Dopo un po’, impari a dire “ahi” non appena ti tocca. Poi te ne vai con le orecchie rosse e il compito di schiacciare periodicamente i cerottini per i successivi due giorni.

Ritorno in strada
La municipalità di Taiyuan ha concesso un’intera strada alla ditan jingji, economia delle bancarelle, termine rispolverato a metà giugno, quando il premier Li Keqiang – il numero due del potere cinese – ha promesso sostegno economico a tutti i cinesi che si rimboccheranno le maniche e si daranno al piccolo commercio per strada per superare le difficoltà economiche dovute al coronavirus. Un’affermazione che ha scatenato vecchi e nuovi ambulanti e anche molti governi locali, che hanno creato spazi appositi per i mercatini improvvisati.

In un centro minore, a ridosso del fiume Giallo, una venditrice di calze che ha disteso la mercanzia su due lenzuola spiega che le autorità locali hanno consentito il piccolo commercio solo dopo le sei di sera: “Di giorno non lavoro, devo stare dietro a mio figlio”. Una coppia di mezza età ha un carretto pieno di libri. Sono sorridenti, soddisfatti: “Vorrei vendere libri anche in futuro”, dice l’uomo.

Wang Xiangwei, opinionista del South China Morning Post di Hong Kong, scrive che di fronte al rallentamento dell’economia dovuto all’epidemia, Pechino ha il problema di consolidare i risultati ottenuti nella lotta contro la povertà nel corso degli ultimi decenni. Non si parla, qui, di quei cinque milioni e mezzo di indigenti che stanno ancora sotto il livello della povertà estrema, di solito anziani, nelle zone rurali; quelli per cui esistono politiche mirate, a metà tra welfare e rilancio dell’economia contadina.

Ci si riferisce invece a 600 milioni di cinesi a basso reddito, poveri ma non troppo, “poveri relativi”, se si vuole. Migranti urbanizzati, ex operai espulsi durante il ciclo delle ristrutturazioni delle grandi imprese di stato, gente che si è riciclata aprendo un negozietto o riempie con estrema flessibilità i buchi negli impieghi privati o informali, giovani senza accesso alle migliori università ma con grande voglia di fare. Sono loro, un proletariato che accarezza il sogno di divenire ceto medio, che ha creduto nella xiaokang shehui – società del benessere moderato – proclamata da Xi Jinping, quelli che non possono perdersi per strada. Non deve succedere.

Transizione contestata
Si adotta quindi la ricetta che funzionò all’inizio delle riforme e delle aperture quando, a cavallo degli anni settanta e ottanta, si smantellarono le comuni popolari, le terre furono redistribuite agli agricoltori e si promosse il sistema di responsabilità familiare: i contadini potevano finalmente vendere il surplus agricolo al mercato. C’è consenso nel ritenere che fu proprio questa liberalizzazione una delle chiavi del boom cinese e soprattutto ha fatto la grande differenza fra la transizione felice al mercato della Cina e quella fallimentare dell’Unione Sovietica: di qui, un esercito di contadini pronti a trasformarsi in piccoli commercianti; di là, una popolazione rurale anziana e demograficamente rarefatta, sparsa nelle immensità eurasiatiche.

Il premier Li – che secondo un accademico cinese di mia conoscenza è “l’unico istruito” all’interno della leadership – ha forse pensato di riattivare il meccanismo sancendo la “libera bancarella”.

Ma non tutti hanno apprezzato.

Nello stesso articolo citato sopra, Wang Xiangwei ricorda che non appena Li Keqiang ha parlato, il fuoco incrociato delle critiche ha cominciato a prendere di mira il suo plauso all’economia delle bancarelle. Un fatto inusuale, che qualche dietrologo di professione ha addirittura interpretato come spaccatura ai vertici del potere cinese. Le municipalità di Pechino e Shenzhen e i mezzi d’informazione sotto il loro controllo – come il Quotidiano di Pechino – hanno immediatamente puntualizzato che no, nelle grandi e moderne metropoli, nelle città-vetrina della Cina superpotenza, l’economia della bancarella è “inadatta”.

Da anni, nella capitale, è in corso una campagna per il decoro che penalizza soprattutto i migranti e l’economia informale. Per il nuovo ceto medio cinese, bancarella è sinonimo di waidiren, forestieri che portano disordine, di scarsa qualità dei prodotti in vendita. Un’isteria accentuata dalla vicenda del mercato di Wuhan, dove si dice che sia nato il coronavirus o, quanto meno, che vi abbia trovato l’ecosistema adatto per diffondersi esponenzialmente.

Una venditrice di frutta a Pechino, 10 giugno 2020. (Noel Celis, Afp)

Eppure il mercato come luogo non solo del paesaggio fisico cinese, ma anche di quello culturale, è profondamente radicato. In A global history of money, lo studioso giapponese Kuroda Akinobu osserva che nella Cina pre-maoista “i contadini preferivano portare i loro prodotti al mercato piuttosto che venderli ai commercianti che li visitavano a domicilio, perché là erano convinti di poter ottenere prezzi consoni, mentre a casa temevano di essere aggirati dai mercanti”.

All’accademico giapponese è per esempio evidente la differenza con il suo paese. Sia Cina sia Giappone avevano sviluppato all’inizio del novecento un’economia rurale basata sul cotone, in cui i commercianti rifornivano le famiglie contadine di materiale grezzo, che veniva filato a domicilio. Ma mentre i contadini giapponesi rivendevano il filato ai commercianti stessi, i loro colleghi cinesi ne conservavano una parte che piazzavano al mercato. Non solo: anche il cotone grezzo era generalmente comprato dai contadini al mercato, dove era possibile contrattare sul prezzo e mettere in concorrenza i commercianti.

Il mercato è il luogo della negoziazione continua, della liberazione dai vincoli subordinati troppo stretti.

In questo senso, Kuroda osserva che il Giappone somiglia molto più al Regno Unito che alla Cina: la sparizione graduale dei mercati di strada si accompagna alla sostituzione delle monete di piccolo conio con il credito, cioè il vincolo, il legame tra commerciante divenuto capitalista e contadino divenuto lavoratore a cottimo. Niente di tutto questo è accaduto in Cina, dove tra la metà del 1700 e il 1949, data della presa di potere comunista, i mercati di strada proliferano – da 15 a 42 nella sola provincia dello Shandong – così come la valute locali, qianpiao, cioè banconote emesse dagli stessi negozianti in caso di scarsità della moneta ufficiale.

“Nel 1929, Xianrendu, nella contea di Laohekou, provincia dello Hubei, soffrì di una grave carenza di valuta”, scrive Kuroda. “Subito dopo iniziarono a circolare in città biglietti emessi da 36 negozi diversi, anche se nella zona vivevano solo circa 300 famiglie. Gli esercizi che emettevano le banconote comprendevano 13 negozi di alimentari, 9 commercianti di grano, 2 frantoi, 2 farmacie, 3 negozi di liquori, 2 case da tè, un commerciante all’ingrosso, un negozio di tofu, una pasticceria, un commerciante d’argento e un macellaio. Sembra che tutti i tipi di negozi della città abbiano emesso le proprie banconote e che non fossero inclusi emittenti ufficiali di valuta. In altre parole, qualsiasi tipo di negozio funzionava o poteva funzionare come emittente di valuta”.

Il che rimanda all’idea dei moderni voucher, uno strumento sperimentato in alcune città cinesi – come Hangzhou – per rilanciare i consumi dopo l’epidemia.

Chiudere un occhio
Nella sera pechinese, un venditore ambulante parcheggia la sua bancarella di frutta e verdura all’incrocio di fronte all’imponente palazzo della Cctv, la televisione nazionale. Viene dallo Hebei, la provincia che avvolge Pechino come la ciambella avvolge il buco, si piazza qui ormai da anni, è tollerato. “Non vanno bene gli affari”, dice, “il premier ha parlato, ma non è che conti molto, qui non c’è nessuno che compra”.

Con lui c’è un signore anziano, un vecchio pechinese che lo aiuta nel suo piccolo commercio. Anche lui sposa la linea del decoro, nonostante la sua stessa presenza in questo luogo sia fatta per smentirla. “Qui a Pechino non possono esserci tante bancarelle, questa è la capitale, ne va dell’immagine della città. Ci sarebbe troppo disordine”.

Ma anche a Pechino c’è chi osa. E i terribili chéngguǎn, gli odiatissimi parapoliziotti che fanno rispettare l’ordine pubblico, adesso chiudono un occhio. Il messaggio del premier Li ha evidentemente toccato qualche nervo, basta fare le cose con discrezione.

“Queste le coltivo in serra, 2-300 renminbi al giorno riesco a farli”. Lui ha un carretto su cui trasporta piante e fiori, si è piazzato di fronte a un supermercato, leggermente defilato. “Prima ci cacciavano sempre, adesso ci lasciano stare. Durante l’epidemia ci sono venuti incontro. Non c’è male dai, non si muore di fame”.

E mi vende un gelsomino arabo.

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