01 agosto 2019 12:59

Il tratto di mare che separa la Turchia dalle isole greche del mar Egeo è di pochi chilometri, in alcuni punti appena sei, otto. Di giorno, dall’isola di Lesbo, la sagoma delle montagne turche è ben delineata all’orizzonte, di sera le luci delle case fanno sembrare le cittadine della Turchia come se fossero sull’altra sponda di un lago. Uno spazio d’acqua che nei secoli ha unito e diviso: a Lesbo, quasi ogni famiglia può raccontare le vicende dei propri antenati che all’inizio del novecento hanno dovuto lasciare il territorio in cui avevano vissuto, cristiani e musulmani, sotto la protezione dell’impero ottomano.

Questa radice ottomana è molte evidente nell’isola: Lesbo non ha niente a che vedere con l’immagine tutta bianca e azzurra delle Cicladi, come Santorini o Mykonos. È una terra montagnosa, verde di ulivi e viti, con le ciminiere delle tante fonderie e fabbriche del liquore tipico, l’ouzo.

Negli anni venti del novecento, con la fine della guerra greco-turca e la nascita di nuovi confini nazionali, avvenne una grande migrazione delle popolazioni e le frontiere divisero per sempre Lesbo e le altre isole del mar Egeo dalla Turchia. Oggi gli scambi di popolazione ci sono ancora, ma non sono i greci ad attraversare quel tratto di mare.

Il 29 luglio 2019 sulle isole greche del mar Egeo sono arrivate sei barche con 210 persone a bordo. Almeno quaranta sono bambini. Il 28 luglio, all’alba, ne erano arrivate almeno quattro con più di cento persone. Il 27 luglio ne erano arrivate 198. Ma non tutte le imbarcazioni riescono a toccare la terra greca: secondo l’Aegean boat report la guardia costiera turca ha fermato a luglio circa 250 battelli e fermato settemila persone: il numero mensile più alto mai registrato dall’anno del grande flusso migratorio, il 2015.

L’accordo tra l’Unione europea e la Turchia, entrato in vigore nel marzo del 2016 per contrastare il flusso di profughi in arrivo principalmente dalla Siria, ha portato alla nascita sulle isole di alcuni hotspot (centri di identificazione) nei quali le autorità greche ed europee – i funzionari dell’immigrazione greci o l’European asylum support office, Easo – devono intervistare le persone arrivate e stabilire se hanno diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. Secondo l’accordo – per il quale Bruxelles ha già versato ad Ankara 5,6 miliardi di euro – i migranti non possono partire dalle isole greche senza un nullaosta rilasciato dai centri di identificazione stessi.

L’appuntamento per “l’intervista”, però, è una chimera che si attende per mesi, anche anni. Chi arriva ora potrebbe essere ascoltato nel 2021. E così i due hotspot di Lesbo – quello di Moria e quello di Kara Tepe, sulla sponda sudorientale dell’isola – si sono negli anni trasformati in gabbie a cielo aperto.

Un fortino nel nulla
Nell’hotspot di Moria, il più grande, oggi vivono settemila persone. È diviso in due parti: una, più strutturata, è formata da container che ospitano separatamente donne, minori non accompagnati, uomini e famiglie; i prefabbricati sono circondati da mura, reti metalliche e filo spinato. Un fortino nel nulla, che si raggiunge lasciando la litoranea e percorrendo una salita tra gli ulivi, lontano dalla strada principale e dai negozi.

Un’altra parte del campo, sempre gestita dalle autorità greche, è più informale e accoglie tutti quei profughi che ormai non entrano più nei container. È composta dai grandi tendoni del’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) arrampicati sulla stessa collina. Solo una stradina separa i due campi, di fatto fusi grazie anche ai buchi nella rete metallica fatti dai profughi, che passano da una parte all’altra e li usano per uscire più rapidamente dalla struttura principale. All’inizio il campo formale era sbarrato, i profughi non potevano uscire. Ora l’affollamento e la situazione lo renderebbe, se chiuso, una bomba a orologeria.

L’hotspot di Moria, sull’isola di Lesbo, Grecia, 22 luglio 2019. (Ciro Attanasio, Comunità di sant'Egidio)

Nella parte informale c’è qualche bagno chimico, una fontana per l’acqua e basta. Alcune tende sono grandi, ma ci si vive anche in undici, dodici persone: con il caldo è impossibile starci dentro, molti stendono fuori delle stuoie e siedono all’aperto. Qui abita la maggior parte dei profughi: almeno quattromila, principalmente afgani, poi siriani, qualche iracheno e quelli arrivati più di recente, camerunesi, congolesi e nigeriani. Più della metà sono famiglie con figli, e si vede: i bambini sono ovunque, giocano tra la terra e gli alberi mentre le donne provano a cucinare qualcosa. Alcune hanno scavato i tradizionali forni sotto terra, dove cuociono il pane. Altre usano pentole elettriche allacciate ai fili della corrente che formano il soffitto del campo all’aria aperta. Con il caldo torrido e la precarietà delle strutture, il rischio incendio è dietro l’angolo. Tra le tende, anche alcuni piccoli orti da cui spuntano i primi pomodori.

La situazione è cambiata dal 2015. Allora, e per un paio d’anni, la maggior parte dei profughi veniva dalla Siria. Ora in tutta Moria l’80 per cento sono afgani, famiglie intere o ragazzi fuggiti dai continui attentati e dai bombardamenti, che solo nei primi sei mesi del 2019 hanno ucciso almeno 1.250 civili. Secondo le Nazioni Unite più della metà delle vittime è morta in operazioni condotte dall’esercito regolare o dalla Nato, mentre “solo” 531 sono state uccise dai taliban. “Esplosioni. Esplosioni ogni giorno. Facevo il cameriere in un ristorante di un francese, a Kabul. Poi lui se n’è andato, troppo pericoloso. Mio padre faceva il tassista. Ma ci sono sempre esplosioni. Allora abbiamo deciso di andare via”. Ismail ha preso la moglie, il figlio di due anni, due fratelli più piccoli, i genitori ed è arrivato, con il bambino sulle spalle, fino in Turchia. Si è messo nelle mani di un trafficante ed è riuscito ad arrivare a Lesbo con tutta la famiglia. Ha 28 anni. Seduto su una branda ricoperta da una coperta racconta il loro viaggio, fa vedere il video della traversata. I genitori sono seduti per terra davanti alla tenda e ascoltano l’audio senza dire niente.

Profughi camminano dal campo di Moria verso la litoranea, Lesbo, luglio 2019. (Ciro Attanasio, Comunità di sant'Egidio)

Qualche metro più in basso, sei famiglie siriane vivono nella stessa tenda, che hanno suddiviso con delle coperte. Appese a dei bastoni, decine di buste fungono da armadio e mettono al sicuro cibo e documenti dalla pioggia e dai topi. Sono arrivati da poche settimane da Deir ez-Zor, dove sono ancora in corso gli scontri con i jihadisti del gruppo Stato islamico: prima avevano lasciato la città rifugiandosi in campagna, poi le violenze sono continuate e hanno deciso di lasciare il paese. Dove volete arrivare? “Anche Atene va bene”, risponde con un sorriso Aisha, giovane, alta, con il bambino più piccolo attaccato al seno sotto l’abaya nera. “Basta uscire di qui. Basta una casa”.

In cammino
La litoranea tra Mitilene e lo svincolo per Moria è continuamente percorsa, giorno e notte, in entrambe le direzioni, da profughi che camminano sul ciglio della strada spingendo i passeggini o con i bambini per mano, il capo coperto dai cartoni per ripararsi dal sole incandescente. L’autobus che passa per il campo circola pochissimo e inoltre per una famiglia costerebbe troppo. Le persone scendono a piedi dal campo e vanno verso il mare, che è proprio a un metro dalla litoranea. Si rinfrescano in acqua, proseguono verso un grande supermercato a fare un po’ di spesa, oppure vanno ai capannoni di Hope project.

È un progetto messo in piedi da due cittadini britannici, Eric e Philippa Kempson, arrivati a Lesbo nel 1996 in cerca di una tranquilla vita al sole, dove coltivare la loro passione per l’arte. I loro progetti sono stati stravolti, nel 2015, dall’arrivo dei barconi carichi di siriani: da allora non hanno più smesso di accogliere i profughi. Nei capannoni la mattina vengono distribuiti vestiti, scarpe, oggetti per l’igiene personale, ombrelli (utilissimi per il sole), passeggini. C’è un laboratorio di pittura che consente, soprattutto alle giovani donne, di ritagliarsi spazi di tranquillità e di espressione. I quadri raccontano il viaggio, la paura, l’ingiustizia e molti sogni. Sahar, che ha fatto il viaggio quattro volte insieme alla figlia, ha dipinto una Superwoman che spicca il volo nel campo di Moria: “Migliaia di forti donne a Moria combattiamo con forza per un futuro più luminoso”, spiega la didascalia.

Un corso d’inglese per i profughi organizzato dalla Comunità di sant’Egidio nei locali di Hope project, Lesbo, 24 luglio 2019. (Stefania Mascetti)

Sahar è hazara, un gruppo perseguitato in Afghanistan perché segue la corrente sciita dell’islam. La discriminazione è diventata particolarmente pesante durante il regime dei taliban, dal 1996 al 2011, e oggi è portata avanti dai jihadisti del gruppo Stato islamico, per i quali sono degli eretici. Molti tra i profughi sono proprio hazara e parecchi di loro vengono dall’Iran, dove si erano rifugiati i genitori e dove i più giovani sono nati e cresciuti. Alcuni non sono mai stati in Afghanistan e questo, al momento dell’intervista con le autorità del servizio immigrazione, potrebbe costare loro il respingimento. Alcuni hanno fatto il viaggio da soli, altri con la famiglia. Mustafa vuole riprendere a studiare, Ali ha lasciato la giovane moglie a casa e la chiama tutti i giorni, Hossein era stanco delle minacce dei taliban, Abdullah è partito con la moglie e il figlio che ora ha un anno e mezzo.

Solidarietà e paura
A Lesbo non sono poche le iniziative di solidarietà con i profughi, ma quasi nessuna è opera di cittadini greci. Sono rivolte soprattutto ai profughi più vulnerabili, donne e bambini prima di tutti. Come Team humanity, creato dall’iracheno-danese Salam Aldeen: uno spazio riservato a ottocento bambini per giocare, disegnare, guardare i cartoni animati. Dalla fine di luglio, negli spazi di Hope project, c’è un accresciuto via vai di persone di ogni età e nazionalità. Fino alla fine di agosto la Comunità di sant’Egidio organizza qui corsi d’inglese, feste, merende, cene, giochi per i bambini: centinaia di persone affollano nel pomeriggio il terreno sterrato davanti ai capannoni. Le persone arrivano presto, dalle cinque, per il timore di non trovare più posto. Avendo visto le condizioni dell’hotspot da cui provengono, appaiono miracolosi l’eleganza e i sorrisi.

Per chi è costretto a fare file estenuanti per ogni cosa, dall’acqua al cibo, dal medico all’assistente sociale, con il rischio che alla fine si rivelino vane perché il cibo è finito o il medico è andato via, il tempo qui trascorre più leggero. Si gioca a dama, si mangia senza fretta seduti intorno a una tavola apparecchiata e con una musica di sottofondo che accompagna fino alla festa finale. Ogni ospite ha ricevuto un invito al campo di Moria, ma la voce si è diffusa e ora si arriva anche senza invito. La cena è molto gradita, ma la festa è uno degli appuntamenti più attesi: andando al campo i ragazzi chiedono i fantomatici biglietti “for the party”. Il successo è dovuto a una formula originale: cucina italo-afgana e servizio – rapido ma allegro – garantito da un gruppo di giovani afgani, molto contenti di aiutare gratuitamente le persone con cui condividono le condizioni del campo. Dopo cena i ragazzi del servizio non riprendono la strada per Moria (tre chilometri) senza aver ballato almeno una mezz’oretta al ritmo di musica bandari.

Nell’hotspot di Moria, Lesbo, luglio 2019. (Ciro Attanasio, Comunità di sant'Egidio)

Nel 2018, 33 milioni di viaggiatori hanno visitato la Grecia, una delle principali mete turistiche al mondo. Il turismo rappresenta una fetta importante del traballante prodotto interno lordo greco, circa il 25 per cento. Il vero tesoro sono le isole, soprattutto le Cicladi, Rodi, Zante, Corfù. A Lesbo invece i turisti non arrivano praticamente più. Dimitri, un albergatore, dice che dopo la crisi economica del 2008 la situazione è precipitata nel 2015, con l’arrivo dei profughi. All’inizio c’è stata una grande ondata di solidarietà, poi la popolazione dell’isola (meno di novantamila persone) ha cominciato a dare ai migranti la colpa di tutti i problemi.

Anche Dimitri ha racconti di famiglia che parlano di fuga dalla Turchia. “È la nostra storia, quella di mia nonna. Avessi visto i siriani che arrivavano: come noi, gente come te e me!”. Racconta di aver aperto il suo albergo ai profughi nell’inverno del 2017, quando sull’isola ha nevicato e delle persone rischiavano di morire assiderate: “Ho preso la macchina e sono andato a prenderli. Ho riempito l’albergo”. Ma la sua scelta non è stata molto condivisa dai suoi colleghi: quando sono arrivate le morti per freddo e il governo ha chiesto alle strutture turistiche di mettere a disposizione delle stanze, solo pochi hanno aderito.

Il nuovo governo greco, eletto il 7 luglio, si è impegnato a rinforzare ulteriormente le frontiere, anche se il responsabile per l’immigrazione, Giorgos Koumoutsakos, nega che nel mar Egeo siano avvenuti dei respingimenti illegali in Turchia, come denunciato da alcune ong.

È di questi giorni la minaccia di Ankara di sospendere l’accordo con l’Europa, accusata di non aver mantenuto l’impegno a togliere l’obbligo di visto per i cittadini turchi e di impedire a alla Turchia di trivellare in acque territoriali cipriote in cerca di gas. Erdoğan vorrà fare come Gheddafi, che nel 2011 usò i migranti in Libia come carne da macello per una dimostrazione di forza al tramonto del regime?

Sicuramente sia la Grecia sia la Turchia non sembrano avere nessun interesse a migliorare la situazione dei profughi: a tutti fa comodo avere nel proprio territorio dei migranti per i quali si ricevono fondi europei e che però con i loro racconti e i loro corpi, vivi o morti, scoraggiano nuovi arrivi. È l’altra faccia della politica dei respingimenti, che finora quest’anno, nel Mediterraneo, è costata la vita ad almeno 836 persone, annegate nella traversata.

Il tratto di mare che separa la Turchia dalle isole greche del mar Egeo è di pochi chilometri, ma l’Europa non è mai stata così lontana.

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