12 agosto 2014 15:58

Dopo mezzo secolo di stasi, in Medio Oriente ci sono delle nuove grandi realtà strategiche con le quali però si ha qualche problema a fare i conti. Prendiamo gli Stati Uniti, per esempio. Hillary Clinton, segretaria di stato nella prima amministrazione Obama, rimpiange ancora il fatto che il suo ex capo non sia stato in grado di inviare maggiori aiuti militari ai ribelli “moderati” in Siria.

“Questo fallimento ha lasciato un grande vuoto, che oggi è stato riempito dai jihadisti”, ha dichiarato di recente Clinton alla rivista The Atlantic. Clinton sostiene che l’invio immediato e cospicuo di aiuti militari alle persone giuste avrebbe contribuito al rovesciamento del dittatore siriano Bashar al Assad e al tempo stesso avrebbe impedito l’ascesa dei jihadisti dello Stato islamico e di Al Qaeda. Che peccato.

Clinton viaggia molto, ma in realtà non esce mai dalla bolla di Washington. Lì ci sono funzionari di intelligence che sarebbero ben felici di spiegarle che quasi tutte le armi inviate ai “moderati” in Siria finiscono nelle mani dei jihadisti, che le comprano o le rubano, ma lei non vuole ascoltarli. E’ qualcosa che va oltre il “consenso”.

Eppure è proprio così che lo Stato islamico acquisisce gran parte dei suoi armamenti pesanti. Il caso più emblematico si è verificato agli inizi di giugno, quando l’esercito iracheno, che negli ultimi tre anni ha speso 41,6 miliardi di dollari per addestrare le sue truppe ed equipaggiarle con armi pesanti fornite dagli Stati Uniti, è scappato da Mosul e dall’Iraq settentrionale lasciando un quarto delle sue armi ai jihadisti.

Sono proprio queste le armi che stanno consentendo allo Stato islamico di conquistare altro territorio nella Siria orientale e nel Kurdistan iracheno. A sua volta, questo è il motivo dei bombardamenti aerei autorizzati da Barack Obama in Iraq per impedire allo Stato islamico di invadere Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno.

A questo punto Obama avrà già abbandonato il proposito formulato nel mese di giugno di spendere 500 milioni di dollari per addestrare ed equipaggiare combattenti dell’opposizione siriana “adeguatamente controllati”, che avrebbero dovuto rovesciare Assad e al tempo stesso schiacciare i jihadisti.

Obama però non si è ancora rassegnato. Molte persone non si sono ancora rassegnate. Tutti quanti sanno che l’intero scenario strategico è mutato. Capiscono che questo potrebbe richiedere nuove strategie politiche e persino nuove alleanze. Cambiare cavallo in corsa è sempre rischioso, perciò i riallineamenti vanno avanti molto lentamente, ma è possibile intravedere le direzioni che prenderanno.

La proclamazione del califfato islamico nella Siria orientale e nell’Iraq nordoccidentale ha pesanti implicazioni per tutti i paesi del Medio Oriente, ma per le grandi potenze è l’unica cosa che conta. Tutte hanno delle minoranze musulmane, e tutti vogliono che lo Stato islamico venga fermato, o quanto meno isolato, contenuto e sigillato.

Questo significa che tanto il governo siriano quanto quello iracheno devono sopravvivere, e probabilmente riceveranno aiuti sufficienti dall’esterno perché questo avvenga (anche se ci vorrà tempo perché gli Stati Uniti e le principali potenze europee cambino fronte e appoggino apertamente Assad). Le milizie curde irachene potrebbe resistere da sole contro lo Stato islamico se avesse armi migliori, quindi le riceveranno (anche se Baghdad non sarà felice del rafforzamento dei curdi).

Contenere lo Stato islamico a nord sarà più facile, perché l’Iran e la Turchia sono stati grandi e ben organizzati le cui popolazioni sono relativamente refrattarie alla versione di fondamentalismo sunnita propugnata dallo Stato islamico. Ma a sud dello Stato islamico c’è l’Arabia Saudita, un paese che dovrà prendere delle decisioni difficili.

La corrente wahhabita dell’islam sunnita, che in Arabia Saudita è la religione di stato, è molto vicina alle credenze dei jihadisti che adesso controllano lo Stato islamico a nord. Gran parte del sostegno finanziario di cui godono e persino delle loro armi vengono dall’Arabia Saudita. Tuttavia i governanti del regno saudita sarebbero poco saggi se pensassero che l’attuale assetto politico in Arabia Saudita sia considerato legittimo dai jihadisti, o che la gratitudine li renderà meno aggressivi.

D’altro canto, l’alleanza di vecchia data degli Stati Uniti con l’Arabia Saudita non durerà se i legami dei sauditi con i jihadisti non verranno spezzati. Riyadh dovrà prendere una decisione, alla luce del fatto che il suo petrolio non è più così importante per gli Stati Uniti da consentirgli di salvare capra e cavoli.

Il riavvicinamento tra Iran e Stati Uniti continuerà, e la questione del presunto programma nucleare militare iraniano verrà risolta in modo pacifico nonostante le proteste di Israele. Anzi, Israele potrebbe subire pesanti pressioni dagli Stati Uniti affinché smetta di tormentare i palestinesi o gli sciiti libanesi ogni due anni, interrompa l’espansione degli insediamenti e accetti la soluzione dei due stati. A Washington farebbe molto piacere che Israele smettesse di alienargli i popoli con cui ha bisogno di allearsi.

Inoltre, il nuovo regime del generale Al Sisi in Egitto può contare su un forte sostegno statunitense e potrebbe perfino essere incoraggiato da Washington a intervenire militarmente in Libia per reprimere le milizie islamiste nel paese. La Tunisia rimarrebbe così l’unico fiore della primavera araba, nonostante anche in Marocco ci sia stato qualche progresso. Nel cuore del mondo arabo, tuttavia, a fiorire sarà la guerra, non la democrazia.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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