15 giugno 2018 16:43

Per prepararsi all’estate ecco un viaggio tra le novità del fumetto indipendente americano, statunitense e canadese, da Quimby the Mouse del maestro Chris Ware al noir rivelazione Colville, senza dimenticare opere di Daniel Clowes, Charles Burns, Chester Brown. È l’occasione anche per un piccolo viaggio nella storia recente del miglior fumetto alternativo nordamericano, che soffre forse di un eccesso di freddezza concettuale.

Le nuove tendenze editoriali in atto in un dato paese e quelle del mezzo d’espressione non sempre coincidono. Nel senso che a volte gli editori riescono a far penetrare nel mercato una tendenza che è già in atto da tempo nel paese d’origine degli autori, oppure a esportare la produzione di un intero paese fino ad allora sconosciuta (è successo per esempio negli anni sessanta e settanta per la produzione francofona e più di recente per quella asiatica). È quello che è successo in Italia in questi mesi con il fumetto indipendente nordamericano, mai così presente nelle librerie.

Non c’è dubbio che il fumetto indipendente americano che va dalla fine degli anni ottanta ai prima anni duemila, passando per gli anni novanta, abbia sfornato una gran quantità di titoli di grande importanza e anche diversi capolavori, qualcuno persino di svolta nella storia del fumetto tout-court. Tra i moltissimi titoli usciti dopo Maus, il graphic novel sull’Olocausto di Art Spiegelman che certamente funge da spartiacque, almeno altri tre titoli si sono avvicinati a Maus per importanza: Asterios Polyp di David Mazzucchelli, Qui di Richard McGuire e soprattutto Jimmy Corrigan di Chris Ware.

Chris Ware traccia un ritratto dell’America e della sua storia partendo dall’intimo

Asterios Polyp (Coconino press) di Mazzucchelli è un’opera cardine di riflessione sul moderno e sul postmoderno. Lo strumento utilizzato è la rivisitazione di alcune estetiche del fumetto popolare, scivolando con maestria dall’estetica fredda postmoderna a una più calda. Il tutto in un appassionante romanzo satirico-sentimentale di riflessione sia interiore sia sociale sull’America di oggi.

Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla terra, recentemente riedito da Coconino press (insieme alla notevole raccolta di saggi Chris Ware. Il palazzo della memoria), è paragonabile a Maus per l’importanza storica, l’innovatività e la sua potenza. In genere, anche i non amanti del minimalismo si arrendono di fronte alla sua ampiezza, così come i non amanti del concettuale si arrendono di fronte alla sua umanità prorompente.

Ware, tra i copertinisti di punta del New Yorker, con le sue tavole-architetture come non si vedevano dai tempi di Will Eisner, traccia un ritratto dell’America e della sua storia partendo dall’intimo. Un’opera di una profondità unica nel rappresentare la solitudine in tutte le epoche dell’uomo qualunque, schiacciato da giganteschi e freddi grattacieli, ma che fiorisce nell’universalità della condizione umana. Nel rapportarsi con l’arte concettuale – Ware ha esposto in musei statunitensi – è anche l’autore che meglio incarna il concetto di meta-fumetto, prossimo a quello di meta-arte.

Quimby the Mouse. (Chris Ware, Per gentile concessione di Oblomov edizioni)

Ci riesce più di Asterios Polyp di Mazzucchelli, opera che arriva al culmine di un lungo percorso professionale cominciato alla metà degli anni ottanta con la rinascita autoriale del fumetto popolare di supereroi, in particolare grazie a Frank Miller (poi autore negli anni duemila di una rivisitazione del noir in chiave concettuale con il capolavoro Sin City) e agli sceneggiatori britannici Alan Moore, Grant Morrison e Neil Gaiman, quando Mazzucchelli realizza su sceneggiatura di Miller Batman: year one, rivisitazione noir dell’ambiguo personaggio di Batman e insieme rifondazione della purezza della mitologia super-eroistica. Mazzucchelli ha poi riletto in chiave ultraminimale e concettuale Città di vetro di Paul Auster (Coconino press, con la supervisione di Spiegelman) e realizzato tante storie, spesso brevi, alla ricerca di un segno grafico più espressionista, vivo, sensuale. Un percorso fatto di opposti, come un viaggio nei tanti tipi di fumetto possibili, da Mazzucchelli sintetizzato in Asterios Polyp.

Jimmy Corrigan di Ware riesce meglio anche del notevole Qui di Richard McGuire (Rizzoli Lizard) a fare meta-arte e meta-fumetto. Altro titolo molto concettuale sempre dovuto a un copertinista del New Yorker, dall’epoca dei dinosauri fino al mondo moderno, passando per l’America dei padri fondatori dove si attarda in maniera significativa, Qui racconta la storia degli Stati Uniti e di una famiglia attraverso le diverse ere di un territorio dove è sorta la casa dell’autore. Un viaggio statico nello spazio ma in movimento nel tempo, dalle variazioni sia grandi sia piccole piuttosto sorprendenti.

Anche in questo caso s’instaura un dialogo tra opposti, tra minimalismo postmoderno freddo e immagini singole dalla fattura pittorica classica. Immagini che rivelano una notevole sensibilità nel ritrarre i paesaggi e nel trasmettere attraverso di essi un sentimento struggente verso un’epoca perduta. Ware è invece quasi alla pari di Art Spiegelman, in particolare quello di prima e dopo Maus. Quello di lavori come Breakdowns, raccolta di micro-racconti concettuali, e L’ombra delle torri (Einaudi), dove la tragedia dell’attentato dell’11 settembre viene raccontata attraverso una rivisitazione dei fumetti statunitensi pubblicati dai quotidiani nei prima trenta-quarant’anni del secolo scorso.

I meta-fumetti
In questo viaggio tra i titoli più recenti del fumetto statunitense, che accosta opere uscite anni fa con altre recenti o recentissime, impossibile non cominciare proprio da Quimby the Mouse di Chris Ware (Oblomov edizioni). Opera giovanile dell’autore, è praticamente il riassunto di quanto abbiamo detto, anzi un condensato. Immaginate i cartoon in bianco e nero degli anni venti e trenta folli e surreali ma ibridati e rielaborati in un personaggio che, pur restando autonomo, a sua volta è come una sorta di fusione tra Felix the cat (il Mio Mao pubblicato dal Corriere dei Piccoli), Topolino e Krazy Kat, il raffinato fumetto surreale di George Herriman.

L’edizione italiana, un elegante cartonato in grande formato, rispetta in pieno quella originale oltre a offrire una buona traduzione, aspetto fondamentale vista la complessità di scrittura di Ware. Le tavole richiamano infatti nel formato quelle, davvero gigantesche, dei supplementi della domenica dei grandi quotidiani statunitensi. La rivisitazione è però esteticamente fredda, geometrica, ancora una volta postmoderna. Ma grazie anche al senso dello spazio davvero unico dell’autore e al lavoro sui dialoghi come nella costruzione delle situazioni, assurde quanto reali, l’interrogazione esistenziale prende dimensioni poetiche quanto comiche in questo viaggio incessante nell’architettura della tavola dove micro-vignette (e micro-storie) si intersecano di continuo in altre più grandi. Fumetto sperimentale quanto ludico, gioco dal movimento anarchico quasi vertiginoso, la parodia e il pastiche sono però indissociabili dalla riflessione sulla solitudine.

Pussey! (Daniel Clowes, Per gentile concessione di Oblomov edizioni)

Daniel Clowes è tra gli autori degli anni ottanta che per antonomasia rappresentano quel fumetto d’autore americano che ha trasfigurato l’estetica pop del fumetto più commerciale rendendo quasi impossibile scinderla da quella di disegnatori pop più raffinati come Steve Dikto. Primo disegnatore dell’Uomo ragno, Dikto è anche autore sperimentale e concettuale ante litteram per esempio con l’astratto personaggio di Mr A. Uno dei primi lavori di Clowes, Pussey! (Oblomov edizioni), arriva ora in un volume cartonato di bella fattura.

In tempi recenti l’autore, sempre lavorando in ottica pop, ha realizzato lavori importanti di riflessione esistenziale, come Patience (Bao Publishing), oppure intrisi di dolcezza umanistica mai retorica, come lo straordinario Wilson (Coconino press). Questa raccolta di racconti brevi o brevissimi sketch, è invece iconoclasta, acida e dai chiari toni satirici verso il mondo contemporaneo, gli Stati Uniti, il fumetto stesso. Narrazione e dialoghi perfettamente gestiti e disegno in bianco e nero dal tratto filiforme e nervoso in un’opera sull’ossessività americana che nel susseguirsi di maschere grottesche mette al centro uno dei più repellenti disadattati mai visti, perfetto condensato del frustrato micro-megalomane nel frattempo divenuto molto diffuso.

Altro genio e autore storico come Clowes è Charles Burns. Noto per il monumentale Black hole che ha segnato gli anni ottanta, figlio molto originale del David Lynch di Velluto blu e Twin Peaks, fu tra i primi a inaugurare la tendenza concettuale del fumetto alternativo statunitense. Se la chiamassimo pop art della pop art, forse per nessuno calzerebbe così perfettamente come per Clowes e soprattutto per Burns. Quest’ultimo ancora oggi sorprende per la forza e intensità plastica nel disegnare gli ambienti e soprattutto i personaggi, nell’uso dello spazio e dei chiaroscuri con cui trasfigura stereotipi del cinema, della letteratura e del fumetto di serie b. Stereotipi che da un lato diventano archetipi, dall’altro inquietanti personaggi infernali celati da un’apparenza pop di personaggi-logo. Ne sono perfetto esempio due titoli storici come Big baby ed El Borbah, in gran parte pubblicati sulla rivista Raw diretta negli anni ottanta da Art Spiegelman, che arrivano ora in libreria con Oblomov in cartonati di grande formato con in appendice due lunghe postfazioni dell’autore che ne raccontano genesi e intenti.

Dietro questo bisogno ricorrente di travestirsi anche tra giovani adulti l’autore fotografa con umanità una forte solitudine

Dash Shaw, nato nel 1983, figura tra le nuove stelle del fumetto indipendente statunitense. Prima di passare ai suoi lavori più complessi e ambiziosi, Coconino press presenta intanto Cosplayers. Anche qui tanto pop, meta-fumetto, approccio concettuale, ma un tratto grafico spesso, quasi da pennarello, mentre la colorazione sortisce quasi un effetto pastello. Se in Clowes si tratta di esseri umani rappresentati come maschere grottesche, qui si tratta di adolescenti mascherati, i cosiddetti cosplayer che abbondano in tante manifestazioni di giochi o fumetti, negli Stati Uniti come in Italia.

Ma dietro questo bisogno oggi ricorrente di travestirsi anche tra giovani adulti l’autore fotografa con umanità, a tratti con tenerezza, una forte solitudine e alienazione di tanta gioventù americana – qui ragazze fanatiche di serie e social network – che vivendo in ambienti ripetitivi e grigi cerca di colorarli in tutte le maniere possibili. Se per l’autore stesso si tratta di una sottocultura, il bisogno di creare autofinzioni porta a finte esistenze. Un mondo virtuale che si mischia continuamente e pericolosamente alla realtà, provocando crudeli sofferenze e ancora più alienazione, infelicità, solitudine. Shaw gestisce il tutto con brio, vivacità, ma rappresenta una generazione in un vicolo cieco.

Laureato in matematica, il californiano Jason Sheiga (nato nel 1976), di cui è appena uscito il primo tomo della saga di Demon (Coconino press), nata sul web, è un altro esponente della nuova generazione statunitense. Anche qui un disegno concettuale che quasi gioca con il logo industriale. Il racconto inizia come il film Ricomincio da capo, la commedia con Bill Murray dove il protagonista si sveglia ogni volta nel giorno della marmotta, ma al posto di quella festa ci sono i tentativi di suicidio del protagonista. Poi la vicenda prende una svolta inattesa e l’eterna ripetizione, sempre presente, si sposta altrove. Certo la perenne ripetitività del paesaggio urbano statunitense si sposa bene con quella del fumetto popolare, soprattutto con la strip umoristica autoconclusiva, fondata sull’iteratività. Evidente la metafora formale dell’eterna ripetitività, letta come gli inferi della quotidianità a cui è condannato Demon e a cui saremmo condannati tutti. Avvincente da leggere, divertente il gioco di variazioni infinite, si rivela però un meccanismo un po’ fine a se stesso e autoreferenziale. Vedremo comunque come evolve nei prossimi volumi, perché si avverte un crescendo.

Simon Hanselmann (nato nel 1981), ancora un autore di riferimento della new wave statunitense. Psichedelico e minimalista, siamo ancora nell’eterna ripetizione della provincia statunitense ma con ben maggiore profondità. Sono protagonisti una giovane strega depressa, il suo gatto parlante e un gufo. La loro quotidianità fatta di piccoli trucchi per sopravvivere, marijuana o acidi, cattiverie e perfidie reciproche, di un cinismo fatto sistema da cui non si vede via d’uscita è forse un po’ compiaciuta ma denota grande inventività e intelligenza. Dopo Special K ecco Megahex (Coconino press) del quale non possiamo che mantenere quanto scrivemmo a proposito di Special K: “Gioiello di leggerezza ipercolorata, racconta in profondità i meccanismi quotidiani della deriva odierna, una deriva limbica, un’eterna indefinitezza, una confusione (non solo sessuale) congenita. Un universo fatto di psichedelia infantile e di crudeltà da fiaba antica, di colori postmoderni per una (divertente) opera astratta ma ben concreta nella sua rappresentazione caustica di un ambiente anarchico ma non simpatico, anzi piuttosto inumano. Ma Hanselmann ha tanta dolcezza grafica sognante nel rappresentarlo”.

Colville. (Steven Gilbert, Per gentile concessione di Coconino press)

Colville, del canadese Steven Gilbert (Coconino press), è l’esempio perfetto di come si possa fare un capolavoro partendo da questo mondo chiuso e ossessivo, limbico appunto, ma rovesciato in chiave assolutamente realista, aspetto che ne accresce la dimensione inquietante. Noir dalla meccanica perfetta ambientato in una cittadina, la Colville del titolo, Gilbert riesce a sorprendere in pieno pur partendo da un cliché letterario e cinematografico, come la piccola località metafora di un luogo chiuso su se stesso e dal quale l’uscita sembra impossibile. Prigione della mente, è un concentrato delle ossessioni e dell’alienazione. La struttura è concettuale per la sua circolarità e per l’impaginazione delle tavole, quasi una griglia, ma il segno grafico realista, anche se con dei limiti (i volti e l’anatomia dei personaggi), è straordinario nel creare atmosfere con un bianco e nero tratteggiato raffinato, un uso sapiente dei punti di fuga, delle angolazioni delle inquadrature, l’assenza di dialoghi per molte pagine. Nessuna gratuità. Questo “diamante nero del graphic novel” ausculta qualcosa di nascosto nelle parti più oscure della terra dell’inconscio. Nessuno ha scampo, nemmeno il lettore che chiuderà il libro angosciato e insieme affascinato dalla propria ghigliottina.

Le donne al centro
Conor Stechschulte con I dilettanti (001 edizioni), con il suo disegno frastagliato ed espressionista, a metà tra realismo e grottesco, moderno e antico, crea belle suggestioni. Il suo tratto sottile evidenzia bene caratteri che sono anche maschere un po’ risibili di un’America puritana rurale atemporale ma al tempo stesso non troppo lontana da certa America di oggi. I brevi sketch nel bosco con le ragazze del college rivelano la profondità dei fantasmi femminili, mentre il crudele mondo maschile è una farsa.

Due titoli di prim’ordine che trattano di donne, in particolare prostitute, sono Maria pianse sui piedi di Gesù del canadese Chester Brown (Bao publishing) e Maria M. dello statunitense di origini latinoamericane Gilbert Hernandez (Oblomov edizioni). Il primo è in realtà un fumetto storico, piacevolissimo e sorprendente. Non sorprende perché Brown, tra gli autori di punta del fumetto d’autore canadese, ha già al suo attivo la notevole biografia del meticcio rivoluzionario canadese, e mistico cristiano, Louis Riel (Coconino press). Autore di varie opere ambientate nel Canada moderno, spesso dal taglio autobiografico come Io le pago (Coconino press), resoconto del suo rapporto continuato con alcune prostitute, con Maria pianse ci riporta all’antichità con una rilettura di interi brani delle scritture ebraiche e del Nuovo Testamento.

Molte donne importanti, tra cui Maria madre di Gesù, sono quasi rivelate in maniera radicalmente nuova, cioè come donne straordinarie, coraggiose, anticonformiste. Basandosi sull’evangelista Luca, l’autore in realtà rovescia provocatoriamente i luoghi comuni evidenziando che in quell’epoca dove narrazioni e genealogie familiari erano dominate dalle figure maschili esistevano donne notevoli che tendenzialmente erano prostitute. Nel farlo rilegge anche la figura maschile per definizione, Dio stesso, il quale non amerebbe chi è servile ma piuttosto chi, rispettosamente, si rende autonomo da Dio per forgiare il proprio futuro.

Maria pianse sui piedi di Gesù. (Chester Brown, Per gentile concessione di Bao publishing)

Chester Brown, ponendosi in un’angolazione originale, ci dice che il Verbo biblico è suscettibile di molte interpretazioni, anche opposte. Struttura formale concettuale che gioca su variazioni minime di ripetizioni continue, disegno altrettanto minimale dal tratto spoglio ma preciso, evocativo quanto sottilmente ironico, sono elementi che servono alla perfezione questa rilettura delle parabole bibliche. Figure umane ieratiche e volti come maschere ma privi di esagerazioni caricaturali, conferiscono veridicità al tutto. Un’ampia postfazione dello stesso Brown e oltre quaranta pagine di note esplicative completano una personale quanto appassionante rilettura al femminile della storia e del concetto di sacro.

Maria M. di Hernandez è il primo volume di un’opera di fantasia. Ma altrettanto paradigmatica d’innumerevoli situazioni reali a cui sono state confrontate tante donne. Facendo uso di un disegno essenziale ma dalla notevole forza espressiva, il taglio grottesco è di una notevole plasticità nel delineare gli ambienti, i personaggi e i loro movimenti. Il risultato del graphic novel di Hernandez è una rilettura politica e sociale iconoclasta dell’America corrotta degli anni cinquanta con l’occhio però di un figlio di migranti latinos dell’America di oggi. Rilettura che sposando in maniera radicale e anarchica il punto di vista della condizione femminile legittima i comportamenti della protagonista che gradualmente, senza quasi che i maschi intorno riescano ad accorgersene per tempo, si prende la sua rivalsa contro lo sfruttamento facendosi gioco di tutti. La prosperosa Maria non sarà una santa ma la sua immoralità si connota quasi di punizione morale, anche un po’ divertita, verso millenni di tirannia maschile.

Meno pop art
Due titoli sono all’opposto di tutto quanto scritto finora. Il primo è di Noah Van Sciver. Autore lanciato da Coconino (che ha da poco pubblicato il seguito dello splendido Fante Bukowski, uno dei suoi titoli migliori), ora anche nel catalogo Oblomov. Con 133 (one dirty tree), grazie a un disegno-scrittura calligrafico, mobile, leggero, racconta per brevi sketch la storia della sua famiglia, mormoni poverissimi, proletari. Pieno di amore per la vita, umanistico e semplice malgrado tanta nevrosi e alienazione, grazie a una narrazione e un segno minimali, oltre a colori vivi, quasi gioiosamente infantili, riesce incredibilmente a divertire, incantare, offrendo un ritratto di società e un viaggio nel dolore interiore quasi senza che ce accorgiamo. Quando accade è troppo tardi, il cavallo di Troia della quiete apparente ha ormai liberato i soldatini dell’interiorità e della critica sociale. 133 è un capolavoro di profondità e umiltà.

Ancora più radicale lo statunitense Frank Santoro che, con Pompei, riesce in un capolavoro di poesia pura e sicuramente uno dei titoli più forti usciti in questi primi mesi del 2018. Santoro, statunitense di origine italiane, sembra quasi tornare alla fonte originaria. Del fumetto libero, del segno grafico libero, del segno come veicolo intrinseco di poesia, insieme leggera e intensa. Talmente libero, che il suo è un vortice di disegni incompiuti. Quasi l’apologia dell’incompiuto, della forza nel disegno non troppo finito, della bellezza dell’opera indefinita per sempre.

Ambientato durante l’eruzione del Vesuvio che nel 79 dC cancellò la città, nel raccontare una storia d’amore che rimarrà anch’essa incompiuta per sempre, Santoro riesce a risolvere un paradosso. Quello di congelare e fissare anche solo per un momento, sinonimo però di eternità, una leggerezza aerea sinonimo invece di volo, orizzonte, futuro. Indicando indirettamente una via nuova per il fumetto statunitense. Un fumetto, malgrado i suoi grandi traguardi, forse un po’ troppo congelato e compiaciuto in una griglia concettuale che a lungo andare rischia d’imbrigliarlo, d’impedirgli in futuro il volo verso nuovi orizzonti.

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