04 ottobre 2018 16:42

L’inquadratura iniziale vede un giovane seduto in un bar ma filmato dall’esterno, e il mondo si frantuma in mille riflessi sulla vetrina. Un mosaico quasi astratto di macchie di colore, un’immagine al limite del decifrabile che unisce due opposti, la dimensione interiore con quella esteriore. L’albero dei frutti selvatici è un film introspettivo e di conflitti interiori a cui vengono opposte innumerevoli sequenze esterne ariose, a volte anche aeree, che sempre si elevano al di sopra del contingente. A tratti la macchina da presa sembra come planare, leggera, senza più zavorra, libera come il vento, come nel magnifico piano sequenza dall’alto che segue l’inquadratura iniziale. Una regia libera. Una regia che abbraccia gli spazi esterni, quelli cittadini e i paesaggi. Soprattutto i paesaggi.

Al tempo stesso la regia costruisce incessantemente immagini impostate su assi di linee diverse, spesso opposte, che s’incrociano, s’intersecano, si sovrappongono in un mutare continuo e veloce, quasi a rifiutare la staticità, la palude, la costrizione, la pesantezza. Quel che è già programmato, ineluttabile. Particolarmente evidente nelle sequenze dove sono filmati i grandi spazi dell’Anatolia, le riprese degli esterni hanno sempre questa caratteristica. Segno del destino che si vuole trascendere ma che prende continuamente direzioni diverse spostando l’asse dell’orizzonte? Metafora di una leggerezza potenziale di vita e di elevazione per tutti gli esseri umani oppure di un’utopia illusoria? Non è chiaro, fino alla fine resta il dubbio, il dilemma. Anzi, nel finale il regista addirittura lo aumenta.

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Presentato in chiusura dell’ultimo festival di Cannes, l’ottavo lungometraggio del regista turco Nuri Bilge Ceylan, dopo il Grand Prix a Cannes nel 2011 per C’era una volta in Anatolia e la Palma d’oro nel 2014 per Il regno d’inverno, è la storia di un giovane che torna nella cittadina natia dopo gli studi universitari e ritrova la madre, la sorella minore e soprattutto il padre al quale è legato da un rapporto profondo quanto conflittuale.

In dubbio costante, sempre incerto sul proprio futuro che non riesce a vedere: diventare un insegnante come il padre, cercando nel tempo libero di costruire con calma la carriera di scrittore a cui anela; oppure, come altri hanno fatto, arruolarsi nella polizia anti sommossa? E sfogare, come detto nel film, le proprie frustrazioni “spaccando la testa con lo scudo ai giovani manifestanti”? Si tratterebbe però di fare così il gioco di un potere politico che pur affiorando tra le righe – anzi è più esatto dire tra le linee delle inquadrature – si rivela con nettezza come sempre più asfissiante. Si parla di caos, di proteste, di conflitti sociali anche se nulla si vede, immersi come si è nella quiete perenne, al limite della stagnazione, di una città di montagna che dà sul mare. Immersi nella positività della luce del sole, nel verde della natura, intenso e insieme leggero, in un’estate che già si colora dolcemente dei colori ocra dell’autunno.

Ma negli interni tutto cambia. Le inquadrature oblique degli esterni applicate agli interni fanno sì che più ambienti siano colti in una sola immagine ma siano anche come più micro-inquadrature inserite in una sola, più ampia. Le linee architettoniche s’incrociano anche qui, ma rispetto a quelle esterne creano claustrofobia, quella sensazione di asfissia che abbiamo detto. Se le linee creano astrazione, i personaggi sembrano al contrario come esseri costretti, appesantiti nella vita concreta che sembra regredire o al meglio ripetersi. Ascoltiamo le loro conversazioni, a volte frammenti di esse, spesso sul ciglio delle porte che fungono quasi da cornici-prigioni.

Produce assoluto incanto la capacità del regista di costruire immagini dove la natura ha tutta la leggerezza e la delicatezza dell’acquarello

Come già in altri film del regista, si è continuamente sull’intercapedine, tra gli interstizi: si conversa con un piede fuori e un piede dentro a un autobus, si spia da dietro una staccionata o tra le borse appese fuori a un negozio. Forse non a caso le porte sono citate in due sequenze importanti, come quella con un burocrate locale dal quale il giovane si è recato per cercare un finanziamento al suo libro, il quale parlando vuotamente di democrazia sottolinea simbolicamente apertura e trasparenza dell’amministrazione statale facendo notare l’assenza di porte. E quella con il padre mentre ripara una porta e il figlio risponde con acredine al lavoro fatto dal padre.

Qualsiasi cosa faccia il padre è sempre inutile, ridicola. Un tempo insegnante rispettato, vedndo l’esistenza sempre più assurda, al pari dell’evolversi della società turca e soprattutto di quella locale, sempre più chiusa e più gretta, si è richiuso su se stesso. Mentre viene irriso sempre più, s’indebita in maniera crescente per il gioco e i rapporti familiari a loro volta si sgretolano sempre più. L’asprezza e il risentimento nei rapporti interpersonali, le frustrazioni, l’insoddisfazione predominano: i rapporti familiari sembrano uno specchio di quelli collettivi. Ma i personaggi della famiglia – la madre, il figlio, il padre, il nonno paterno – sembrano l’uno speculare all’altro, eppure appaiono tutti terribilmente umani nel tentativo di sfuggire alla cappa opprimente che li avvolge, oppressione di cui sembrano sia carnefici sia vittime, perché incapaci di sovvertire le convenzioni sociali. Per esempio la lunga discussione con i due imam su Dio è un momento di laicismo che non riesce a sfondare, tale è l’arrendevolezza di convenienza ai postulati sociali. In fondo, sotto più aspetti vedere una certa prossimità con l’Italia è inevitabile.

Per fortuna c’è la natura. Produce assoluto incanto la capacità del regista di costruire immagini dal grande nitore fotografico dove la natura ha tutta la leggerezza e la delicatezza dell’acquarello. Particolarmente vero nella lunga sequenza con una ragazza dove il protagonista confessa il suo desiderio di partire e lei, togliendosi dalla testa il fazzoletto e sciogliendo al vento i suoi splendidi capelli neri, gli dice di voler fare lo stesso. L’incerta oscillazione della giovane donna tra il desiderio gioioso di scoprire per intero le cose belle della vita e la disperazione per la realtà concreta è in fondo quella di un po’ tutti i personaggi. Ma quando più tardi la vediamo sposarsi con un ricco e grasso gioielliere cogliamo in un colpo solo come il prezzo da pagare per partire, per volere una vita diversa, per tante donne sia doppio rispetto agli uomini, soprattutto in quei luoghi di provincia. Per loro l’unica opportunità di scelta sembra essere quale tipo di prigionia preferiscono.

Il figlio viene per ritrovare ma non trova, anzi perde. Gli ambienti sociali mutano in peggio pur restando immutabili nelle convenzioni come pure nella mancanza concreta di futuro, d’innovazione. Il padre in fondo è un ateo non dichiarato – come anche il regista sia convinto che fosse suo padre – un disadattato anarcoide che non ne azzecca una. Un pero selvatico, solitario e difforme. Il titolo originale è riferito a quest’albero, e soprattutto al suo frutto, ma forse viene da credere che il titolo italiano, più generico, sia riferito al fatto che nel film siano importanti tutti gli alberi solitari, quelli letterali, come il meleto a cui attingono a piene mani i due imam, e quelli metaforici.

Il film è ambientato praticamente dove è situata la città di Troia, terra natia del regista, in prossimità dello stretto dei Dardanelli. Diversi sono gli elementi autobiografici, ma alla base ci sono gli elementi della vita di un giovane maestro cresciuto in quella zona. Un giovane, secondo Ceylan, dalla grande cultura e intelligenza, tanto da chiedergli di collaborare alla sceneggiatura insieme a lui e a Ebru, moglie del regista. La collaborazione è arrivata in un momento difficile per quel giovane maestro anche perché è difficile in Turchia trovare lavoro come maestri e il film non a caso insiste su questo aspetto.

Leggerezza e pesantezza
L’albero dei frutti selvatici è un film di vita. Vita vera, passata e presente, proprio come il sogno e la realtà sono fusi in maniera osmotica malgrado un’estetica apparentemente naturalistica. Ambientato in una terra mitica, di cui il simbolo è un cavallo di Troia che qui non pare altro che un simulacro di quel postmoderno che viene significativamente citato in una conversazione un po’ surreale con un anziano che cerca di campare e far quadrare i conti faticosamente, il film parla da sé con profondità. Anche non pensando alla grande storia, mitica o reale, anche non pensando ad Antonioni, cineasta dell’alienazione moderna a cui rimanda l’immagine iniziale del giovane dietro la vetrina, oppure ancora a Chekov, o volendo anche al Milan Kundera di L’insostenibile leggerezza dell’essere, di cui in qualche modo riprende e rovescia oltre all’uso metaforico dell’albero, la dicotomia tra leggerezza e pesantezza per mezzo di una fotografia luminosa, di persistenti piani-sequenza aerei e dove la camera fissa è sostanzialmente rifiutata. La camera, passando in sezione gli ambienti, quasi volando, finisce per conferire al film una dimensione da documentario sui luoghi e le genti di quei posti. Il film è anch’esso un pero selvatico che si rivela di grande bellezza e originalità dietro l’apparenza sempre difforme, sempre mutante.

Il finale, dove è centrale il buco nero di un pozzo di montagna, è dal doppio significato. Da una moltitudine di linee rette si passa a una singola linea ovoidale. Al giovane protagonista viene regalata una gratificazione realmente commovente grazie a quel padre tanto osteggiato. Malgrado questo momento di profonda umanità e di speranza nella riconciliazione, sembra però anche possibile il congelamento in un’esistenza che cerca illusorie e ossessive utopie proprio da parte di chi sperava di rompere l’eterna ripetitività del quotidiano e la circolarità della storia. L’albero dei frutti selvatici è un grande film, se non un capolavoro.

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