Zoltán non è del tutto a posto con la testa, ma il mondo intorno a lui è anche peggio. Zoli, come lo chiama la famiglia, aveva cinque anni quando cadde “dalla moto come un sacco di farina” (suo padre non se ne accorse nemmeno e proseguì senza di lui). Da allora ha avuto un continuo tremore alle membra. Lo strano bambino che balbetta ma parla con animali e cose diventa un ragazzo mite che non ha amici nel villaggio, passa il tempo con il suo cane Tango e preferisce risolvere i cruciverba. Quando compie vent’anni, i genitori perplessi lo fanno arruolare nell’esercito sperando che lo faccia diventare come gli altri. Ma questa recluta ingenua vede più a fondo dei suoi commilitoni. L’anno è il 1991 e i ragazzi dei villaggi e delle città serbe della zona si preparano a uccidere e morire nelle baracche di Zrenjanin, una città nella regione tra il Danubio e il Tibisco, chiamata Vojvodina. Il romanzo è pieno di passaggi altamente poetici, ma non sempre riesce a resistere alle due tentazioni della romanticizzazione della cultura rom e del kitsch balcanico. Karl-Markus Gauss, Süddeutsche Zeitung
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Questo articolo è uscito sul numero 1396 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati