Ci sono film che vanno visti al cinema e Valley of the Gods è uno di questi. Intanto perché è un drammone di ampia portata visiva, che si apprezza meglio sul grande schermo. Ma soprattutto va visto in sala con altri spettatori per poter studiare la loro reazione alla fine di un film così strano, bizzarro e inclassificabile, in una parola: folle. All’inizio John (Josh Hartnett) arriva nella Valley of the Gods, luogo sacro dei navajo. Tira fuori una scrivania dal suo furgone, la piazza in mezzo al nulla e comincia a scrivere (a penna). Scopriremo che è un pubblicitario che sta cercando di rimettere insieme i pezzi della sua vita dopo che la moglie l’ha lasciato e ha deciso di scrivere il romanzo che ha sempre voluto scrivere. Anche se non è sicuro, si può presumere che il resto del film sia la visualizzazione della sua opera. Così conosciamo Wes Tauros, l’uomo più ricco del mondo (interpretato da John Malkovich), di cui John è il biografo. Per la critica standard Valley of the Gods è un film inizialmente folle che diventa sempre più folle. La storia, costituita da un prologo e dieci capitoli, è incomprensibile, come se Lech Majewski avesse deciso di unire i film di Terrence Malick e le opere recenti di Wim Wenders. Non si può dire che il film “funzion i ”, ma non importa. Formalmente è magnifico e davvero non ci si annoia. Si arriva così al finale, di cui è meglio non dire niente. Tanto non ci credereste. Peter Sobczynski, RogerErbert.com

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Questo articolo è uscito sul numero 1412 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati