L’acclamato album di debutto dei britannici Working Men’s Club è uscito nell’ottobre del 2020 e funzionava come una fuga dall’ansia che dominava quel momento storico. Ora sono tornati con Fear fear, un disco più cinematografico e meno compatto del precedente. Se da una parte l’album riflette il nostro oscuro presente, il suo nucleo narrativo si snocciola lungo un processo di catarsi frutto di un viaggio personale e introspettivo, che ci da comunque la possibilità di ballarci sopra. A cominciare l’album è 19, una lunga introduzione inquietante che ci mette sulla strada di una tecno e un’acid house sfasate. La canzone che dà il titolo al disco raccoglie le energie tra dance e industrial e il resto di quello che viene dopo continua su questa scia, alternando momenti di disagio inquietante a ritmi sempre ballabili, ispirati al synth pop di Gary Numan e dei primi Human League. Alla fine quello che tiene insieme tutto il lavoro è l’abilità del leader della band, Sydney Minsky-Sargeant, nell’incrociare una serie d’influenze provenienti dal passato mantenendo una vitalità contemporanea. Per Fear fear la band dello Yorkshire è riuscita ad alzare notevolmente il livello dell’attenzione al dettaglio e dell’eclettismo, esprimendo l’evoluzione dalla rabbia verso una catarsi utopica nel contesto della pandemia.
Kieran Macdonald-Brown, Clash

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1475 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati