Jessica Au (New Directions Publishing)

Madre e figlia s’incontrano in Giappone per una vacanza. Fanno passeggiate, viaggiano in treno, visitano gallerie d’arte, mangiano in ristoranti e comprano regali. A prima vista questa è la storia di Tempo di neve, il secondo romanzo sottile e sornione della scrittrice australiana Jessica Au. La figlia racconta in una prosa calma come il rumore di un rastrello che traccia con cura un disegno nella sabbia. Non scopriamo mai da dove vengono i due personaggi né sappiamo molto sulle vite che li attendono al loro ritorno. Fin dall’inizio, ci sono segnali che indicano che madre e figlia stanno girando intorno a qualcosa. Ma non è facile per i personaggi, e tanto meno per il lettore, definire questo qualcosa. Forse la risposta si trova nella vistosa assenza del padre, mai nominato. O forse si trova nel passato della madre, la sua emigrazione da Hong Kong molti anni prima, la famiglia che ha lasciato lì. Ma la figlia sa poco di questo passato. I segreti sepolti e i ricordi repressi sono dispositivi narrativi comuni in un certo tipo di romanzi. È un approccio alla letteratura che corrisponde a un approccio alle relazioni umane: è scoprendo quello che le persone hanno vissuto che arriviamo a conoscerle meglio. A volte, Jessica Au sembra voler incoraggiare proprio questa idea, invitandoci a leggere il suo libro nello stesso modo in cui la narratrice legge sua madre. Eppure il romanzo mette in dubbio il valore intrinseco di scoprire i segreti. La stessa narratrice ha dei lampi di consapevolezza, quando sembra capire che scavare sotto la superficie non è l’unico modo per acquisire una visione. C’è anche la possibilità che, cercando il retroscena di una persona, non si vedano cose essenziali. All’ultima pagina, la narratrice non ha ancora le informazioni che cercava. Tende a vederlo come un fallimento. “Il viaggio stava per finire”, dice, “e non avevo fatto quello che volevo”. Ma sapeva davvero cosa voleva? Il romanzo di Au è magistrale nel modo in cui evoca la dissociazione dal desiderio, nostro e degli altri. Alla fine, il viaggio non è un fallimento, e nemmeno il libro. La narratrice non avrà portato alla luce nulla di drammatico dal passato di sua madre, ma è stata viva e curiosa verso il presente, in quel modo speciale che il viaggio rende possibile.
Peter C. Baker,
The New Yorker

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Questo articolo è uscito sul numero 1479 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati