Tutto comincia con una scena a dir poco biblica: un neonato, figlio illegittimo di una ragazza la cui vita è nel caos totale, piange per la prima volta nella capanna accanto alla casa di una coppia che non può avere figli, mentre un asino gli soffia sopra come per avvolgerlo in un calore materno. Nel cielo, le costellazioni brillano. È la domenica di Pasqua su un’isola delle Indie Occidentali. La coppia senza figli vede nel bambino un “dono di Dio”. Lo chiamano Pascal. Prende forma il presepe. Nascono le parabole. Ed è così che nasce un vangelo alla Condé, con uno stile di scrittura vivace che punge e accarezza. Un vangelo che rivela le peregrinazioni agrodolci dell’inesauribile immaginazione di una scrittrice desiderosa di verità e di chiarezza sui fatti e sui misfatti che uniscono il nostro mondo. C’è qualcosa nel piccolo Pascal, cresciuto come pescatore sulle coste della sua isola nativa dei Caraibi, che lo rende prodigioso quanto Gesù stesso: il colore della sua pelle. Pascal è bianco e nero. O né bianco né nero. È la riconciliazione. Maryse Condé cerca di dare risposta a enigmi che la assillano da tempo. Cosa fare in questo mondo che ha visto infrangersi la négritude? Ci consegna così una storia in cui il dramma si mescola all’ironia, le domande non richiedono risposte ma il silenzio del buon senso, in cui “l’essere umano non è né del tutto bianco né del tutto nero”, la felicità e gli orrori della religione sono messi in discussione, in cui infine il mistico si scontra con la realtà.

Katia Dansoko Touré, Libération

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Questo articolo è uscito sul numero 1480 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati