Quell’aspirapolvere nel buio è una delizia: fa ridere a crepapelle anche quando parla di temi serissimi. Mona è una giovane donna delle pulizie perseguitata dai fantasmi dello stupro, dell’abuso, dell’incesto, dell’abbandono e della dipendenza. Decisa a trovare persone che la aiutino a seppellire il suo dolore, inevitabilmente ne attira altre, che la riportano a quello stesso dolore. All’inizio del romanzo, Mona sta pulendo feci umane disseminate in giro per la casa. Beagin trasforma così Mona nella metafora del secchio della spazzatura lasciata dalle persone irresponsabili che la circondano: sua madre, che l’ha abbandonata per dei pappagalli da compagnia; un terapeuta cieco, che dice a Mona che puzza di suicidio; un pittore ungherese dipendente dagli oppiacei che la convince a posare nuda; e Dark, un uomo sposato che torce le viscere di Mona con una lussuria che non fa prigionieri. Mona accetta tutto, incassa tutto e poi pulisce. Tuttavia, mentre si libera di ogni narcisista sanguisuga per poi cadere sotto l’incantesimo del successivo, il romanzo traccia un crescente senso di autoconsapevolezza. Forse Mona è più forte di quanto pensi? “L’unica vergogna che provo è di essere stata troppo passiva. Non ho detto abbastanza no nella mia vita. Se lo avessi fatto, probabilmente ora sarei una persona diversa”. Mona non si aspetta più che la casa sia il luogo della guarigione, ma è comunque lì che si concentra il tenero pathos del romanzo. Stephanie Danler, The New York Times

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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati