Nel 1966 i Beatles si rassegnarono al fatto che l’unico ambiente in cui potevano crescere come artisti era lo studio di registrazione. Meno di un mese dopo l’uscita di Revolver, la band fece il suo ultimo concerto. Era la fine di un’era, le urla dei fan erano alle spalle. Le droghe psichedeliche avevano aperto le menti dei Fab four e la tecnologia dello studio avanzava rapidamente, dando alla band gli strumenti per espandere la coscienza del pop. Sembrava che Giles Martin, il figlio del produttore dei Beatles George Martin, non sarebbe stato in grado di ricreare la stessa magia dei remix del White album e di Abbey ­road­, perché Revolver al tempo fu registrato in mono solo su quattro tracce. Ma, usando le tecnologie di nuova generazione sperimentate da Peter Jackson per il documentario su Get back, Martin ha raggiunto un risultato sorprendente con le nuove versioni in stereo dei brani. I 14 pezzi del disco si confermano più che brillanti, in particolare For no one e Tomorrow never knows. L’oro per i fan dei Beatles è nel secondo e terzo disco del cofanetto, che contiene le prove in studio e le demo casalinghe. Qui ci sono, per esempio, Martin che segue la direzione di McCartney per gli archi di Eleanor Rigby e la prima registrazione di Yellow submarine (con un Lennon in acustico che intona tristemente: “Nel luogo in cui sono nato, a nessuno importava”). Ci saranno dei divorzi se questo cofanetto non finirà sotto l’albero a Natale. Ian Fortnam, Classic Rock

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Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati