L’influenza ideologica della guida suprema Ali Khamenei colpisce gli atleti iraniani in molti aspetti: dall’obbligo per le donne di indossare l’hijab (il velo che copre la testa) al divieto di stringere la mano a persone dell’altro sesso e di gareggiare con gli atleti israeliani, fino alla strumentalizzazione, come è successo durante i mondiali di calcio maschile in Qatar.

Negli ultimi cinque anni il governo ha sempre cercato di alimentare la competizione tra i tifosi delle squadre di Teheran e quelli di altre città. Ma dopo lo scoppio delle proteste in tutto il paese due mesi e mezzo fa, l’interesse per le rivalità tra club è quasi scomparso. Durante i mondiali la nazionale, che per decenni aveva unificato gli iraniani, è stata percepita in due modi diversi: la “squadra iraniana” e la “squadra della Repubblica islamica”.

Una questione di sicurezza

Khamenei, che non ha alcun interesse per lo sport e vede atleti e squadre solo come un’opportunità per esportare l’ideologia della Repubblica islamica, ha usato il calcio per promuovere le sue politiche. La guida suprema ha fatto della nazionale la squadra della Repubblica islamica. I giocatori riceveranno 15mila dollari ciascuno per aver sconfitto il Galles il 25 novembre.

Il calcio è diventato una questione di sicurezza nazionale. Dopo che la squadra iraniana si è rifiutata di cantare l’inno prima di affrontare l’Inghilterra il 21 novembre, Voria Ghafouri, un noto giocatore che non fa parte della nazionale, è stato arrestato per aver “diffuso propaganda contro lo stato” (in seguito è stato rilasciato). Nella seconda partita contro il Galles la squadra ha intonato l’odiato inno.

Per Khamenei non è importante che gli atleti o le squadre vincano: quello che conta è che si allineino al sistema. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1489 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati