Vergognandosi di aver dato voce alle idee troppo ottimistiche sulle iniziative militari degli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq, la reporter statunitense Lisette Marigny chiede capricciosamente a un motore di ricerca: “Ci sono guerre in questo momento che non stiamo perdendo?”. L’algoritmo sostiene che la risposta sia “Colombia”, in cui, nel 2015, le truppe statunitensi stavano sostenendo un processo di ricostruzione nazionale e di pace dopo mezzo secolo di guerre civili intrecciate tra forze governative, terroristi, rivoluzionari e baroni della droga. E quindi Lisette decide di andare nel paese, incrociando il maggiore Mason Baumer, un medico dei marines che, tormentato dalle catastrofiche morti a cui ha assistito nelle stesse guerre che hanno sconvolto la giornalista, ha accettato quello che spera sia un incarico più costruttivo come ufficiale di collegamento delle forze speciali all’ambasciata di Bogotá. La buona guerra è il romanzo d’esordio di Phil Klay, veterano dei marines. Se il libro fosse un film, sarebbe vietato ai minori solo per le crudissime scene di battaglia, che ritraggono un’umanità stravolta dal conflitto. Romanziere cattolico che scrive una fiction ambientata in zone di guerra straniere, Klay rende tributo al suo principale modello letterario, Graham Greene. La buona guerra è un’ampia, crudele, straziante e saggia aggiunta alla grande letteratura dell’imperialismo statunitense del dopoguerra.
Mark Lawson, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1508 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati