Le elezioni del 7 maggio hanno alterato drammaticamente lo scenario politico cileno, proprio nell’anno del cinquantesimo anniversario del colpo di stato di Augusto Pinochet. Il Partito repubblicano, di estrema destra, ha vinto le elezioni per la formazione del consiglio che dal 7 giugno dovrà scrivere una nuova costituzione. Il partito di José Antonio Kast è il più votato dal 1990 (anno in cui Pinochet lasciò il potere). Le grandi masse di elettori, che tradizionalmente non vanno alle urne, hanno scelto una forza politica cresciuta grazie a una retorica basata sull’ordine, il controllo dell’immigrazione e la difesa della patria: la classica ricetta del nazional-populismo di estrema destra. I repubblicani hanno così ottenuto 23 seggi su cinquanta.

Il 7 maggio il Cile ha vissuto un paradosso crudele: le stesse persone che per decenni si sono opposte alla riforma della costituzione, oggi possono scriverne una nuova. Se consideriamo anche l’apporto della destra tradizionale, infatti, i conservatori arrivano a 34 seggi. Una simile maggioranza può proporre, modificare e approvare tutte le norme che vuole. C’è da sperare che la destra si lasci guidare dalla moderazione e dalla volontà di trovare un accordo, princìpi basilari per creare una nuova costituzione ed evitare un altro fiasco dopo quello dell’anno scorso, quando un’ampia maggioranza di cileni (62 per cento) ha bocciato la riforma costituzionale presentata dal presidente Gabriel Boric.

Il governo e i progressisti hanno incassato una sconfitta durissima. Il centrosinistra è praticamente scomparso, ma neanche davanti a una svolta storica sembra capace di autocritica. Il risultato è la conseguenza del vuoto lasciato da forze che sostengono di rappresentare i più poveri, un vuoto in cui l’estrema destra è riuscita a inserirsi. Serve invece un’analisi profonda delle cause dell’insuccesso. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati