L’album senza ospiti di Doja Cat vorrebbe dirne quattro a chiunque ha sostenuto che lei non è davvero una rapper. Scarlet afferma l’abilità di Doja nel rappare e il suo diritto di avere molti talenti. Ma è un album ripetitivo, che abbina interpretazioni non sorprendenti dell’hip-hop tradizionale con risposte taglienti agli insulti ricevuti negli ultimi mesi, anche dai suoi fan. Concettualmente, l’album è a metà strada tra Anger management di Rico Nasty e Reputation di Taylor Swift, come se la sua autrice avesse sempre qualcosa da dimostrare. Dopo le iniziali Paint the town red e Demons, Scarlet è un purgatorio di canzoni dal ritmo simile che suonano come echi progressivamente meno profondi dell’orgoglio e della spavalderia dei già citati singoli. La performance vocale di Doja Cat è dinamica, ma la sua scrittura rende i pezzi poco più che degli insulti da parco giochi. La già citata Paint the town red è un meritato successo di Halloween e il ghigno con cui Doja Cat dice “preferirei essere famosa” fa pensare all’Eminem dell’era Slim Shady. Ma le tinte horrorcore che tanto avrebbero fatto bene a questo disco finiscono lì. Scarlet dovrebbe essere un manicomio, e invece è come un viaggio nella sala d’attesa della clinica dell’hip-hop.
Anna Gaca, Pitchfork

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Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati