Gli attacchi di Hamas e la reazione d’Israele hanno scatenato commenti forti e schierati nella stampa palestinese, araba e in quella israeliana. Lo scrittore e intellettuale libanese Elias Khoury dice sul quotidiano panarabo Al Quds al Araby che per tutti i palestinesi è già una vittoria “qualunque sia il prezzo da pagare”, perché “la più grande prigione a cielo aperto, il ghetto di Gaza, ha dichiarato guerra a Israele. E ha dimostrato che l’occupazione può disintegrarsi sotto i colpi degli ultimi, la povera gente di Gaza”. Secondo Khoury, “ora sappiamo che il popolo palestinese non morirà. Il vecchio gioco in cui Israele uccideva a suo piacimento, bruciava villaggi, dava lezioni alle sue vittime e non gli importava di giustificarsi è finito, come è finita la menzogna della pace. I palestinesi non hanno altra scelta che resistere in difesa della propria esistenza”.

Molti osservatori palestinesi sottolineano lo squilibrio a favore d’Israele nella copertura giornalistica internazionale. L’attivista e poeta Mohammed el Kurd scrive su Twitter: “Durante il notiziario delle 22 della Bbc hanno parlato del bombardamento su Gaza per due minuti. Il 90 per cento del telegiornale era dedicato a leccare i piedi all’esercito israeliano. Non si tratta nemmeno di pregiudizio: è una dichiarazione di fedeltà al regime sionista”.

Il quotidiano palestinese Al Ayyam, vicino all’Autorità nazionale palestinese, condanna le reazioni dei paesi occidentali che dimostrano “radici profondamente razziste”. Dalle loro dichiarazioni traspare la convinzione che “la vita dei palestinesi non può essere equiparata a quella degli israeliani”.

Sul canale tv conservatore statunitense Fox News, Michael Levin esorta il premier israeliano a “mostrarsi all’altezza del suo compito” e a proteggere Israele con ogni mezzo: “Non stiamo parlando di vendetta, anche se il desiderio di vendetta è grande. La vendetta ci renderebbe non migliori dei nostri nemici. Stiamo parlando di sicurezza, di fare tutto il possibile, dovunque e per tutto il tempo necessario, per prevenire un’altra esplosione di violenza”.

Yossi Yehoshua esprime la stessa opinione sul giornale israeliano Yedioth Ahronoth: “Ora il mondo è solidale con Israele, sulla scia del sostegno mostrato dagli Stati Uniti, ma è una posizione temporanea. Il momento per agire non durerà a lungo: prima che passi, Gaza dovrà pagare un prezzo che le lascerà un trauma così profondo da impedirle di considerare azioni del genere in futuro. È obbligatorio battere il ferro finché è caldo, perché tra poco le attestazioni internazionali di solidarietà saranno rimpiazzate da richieste di mettere fine al conflitto nella maniera più pacifica possibile”.

Sul Times of Israel, l’editorialista Haviv Rettig Gur cita Moshe Dayan, ex ministro della difesa che esortava Israele a muoversi come una “tigre ferita, imprevedibile e disperata”, per dissuadere i suoi nemici dall’attaccare. Secondo Rettig Gur, “Hamas sta mettendo alla prova questo vecchio adagio: ha fatto di tutto per cambiare la mente israeliana e farla passare da una comoda fiducia nelle proprie forze a un senso di terribile vulnerabilità. Ma presto conoscerà le conseguenze di questo errore di calcolo. Un Israele forte può tollerare un Hamas bellicoso ai suoi confini; uno più debole non può. Un Israele sicuro può dedicare tempo e risorse alle ricadute umanitarie di una guerra di terra a Gaza; un Israele vulnerabile non può. Un Israele ferito e indebolito è un Israele più feroce. Hamas una volta era una minaccia tollerabile. Si è reso intollerabile, convincendo gli israeliani di essere troppo fragili per rispondere con la vecchia moderazione”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati