Sono coppie impensabili che si sono riappacificate dopo il genocidio di trent’anni fa in Ruanda. Assassini e sopravvissuti. La riconciliazione non è mai facile. Ogni bagno di sangue prima o poi finisce. I sopravvissuti portano sulla pelle le cicatrici e seppelliscono i morti. Gli assassini e gli stupratori pagano per le proprie azioni o la passano liscia. E chi ha subìto delle perdite non ha altra scelta che tentare di conviverci, preferibilmente in pace. È quello che succede ormai da trent’anni in Ruanda. In nessun altro paese nella storia dell’umanità ci sono stati tanti morti in un periodo così breve. La stima è di 800mila nel giro di cento giorni, soprattutto tra i tutsi. Ciò che rende questo genocidio così atroce è che la maggior parte delle vittime non è morta a causa di operazioni militari, ma è stata uccisa con machete e mazze. Non sono stati degli sconosciuti a ucciderle o mutilarle, ma spesso vicini di casa o conoscenti.

Dal 1999 le autorità promuovono attivamente l’unità nazionale e la riconciliazione. Ma unità e pacificazione non si possono imporre. Più del 50 per cento dei ruandesi sopravvissuti soffre di depressione o disturbi d’ansia. Come si superano i traumi della guerra nei paesi poveri? A partire dal 2005 la socioterapeuta olandese Cora Dekker ha sviluppato a questo scopo un metodo economico ed efficace. Dekker ha rimodellato una tecnica usata negli ospedali occidentali per il trattamento dei traumi di guerra dei richiedenti asilo e l’ha adattata al lavoro svolto da terapeuti volontari che fanno parte della comunità con cui lavorano. La community-based sociotherapy si pone come obiettivo il miglioramento dei rapporti sociali tra persone che hanno subìto un trauma. In Ruanda il metodo è conosciuto con il nome di mvura nkuvure (io guarisco te, tu guarisci me). Più di 64mila ruandesi hanno completato questo percorso.

Insieme al fotografo Jan Banning ho attraversato il Ruanda per un mese. Il nostro scopo era quello di ritrarre 26 coppie, che un tempo si consideravano nemiche, diventate amiche grazie alla terapia. Abbiamo ascoltato storie terribili sul genocidio. La convivenza dopo quel periodo è stata fragilissima. Sopravvissuti e colpevoli erano condannati alla presenza reciproca. Ma si ignoravano o si evitavano. Il Ruanda è pieno di persone che sono state direttamente o indirettamente colpite dal genocidio, ce ne siamo resi conto parlando con le coppie che si sono riappacificate grazie alla terapia, anche se l’obiettivo non è quello, ma aiutarle a convivere con il proprio trauma e al tempo stesso ricostruire la coesione sociale nelle comunità. Per farlo l’organizzazione locale Cbs Rwanda ha formato più di mille terapeuti, che vivono nello stesso villaggio dei gruppi di cui si occupano. Non sono pagati, ricevono solo un rimborso per le spese di trasporto e di telefono.

A sinistra, Vedaste Macumu, 70 anni: “Io e mia moglie ci siamo sposati nel gennaio 1995 per sconfiggere la solitudine. Lei aveva 17 anni, aveva perso tutta la famiglia. Io ne avevo 41. Mia moglie, mio figlio, le mie cinque figlie, erano tutti morti. Insieme abbiamo avuto sette figli. ‘Perché gli altri bambini hanno nonni, zii, cugini e noi no?’ mi ha chiesto una volta il nostro figlio maggiore. Ildephonoe (a destra nella foto) ha saccheggiato e distrutto la nostra casa. Mi ha detto di essere profondamente pentito. Mi ha fatto bene sentire la mia rabbia scorrere via. Erano anni che la mia testa era sul punto di scoppiare”. Ildephonoe Mugwaneza, 50 anni: “Non avevo mai ucciso nessuno. A nessuno piace uccidere. Ma i nostri leader ci facevano molta pressione. Magari riuscivi a sottrarti un giorno. Ma mai a lungo. Dal 1996 al 2020 sono stato rinchiuso in sette prigioni. Nella prima c’era spazio per tremila persone, ma eravamo in dodicimila. Non c’era abbastanza posto per dormire tutti sdraiati. Alcuni morivano, altri soffrivano di mal di schiena cronico. All’inizio ci picchiavano tutti i giorni. Pensavo che non sarei uscito vivo da lì. Mia moglie si è risposata. La mia famiglia mi ha dimenticato. Il fatto di essere benvoluto dall’uomo a cui ho fatto del male mi dà speranza”.

La terapia si basa su quindici sedute di tre ore l’una, a cadenza settimanale. Ogni gruppo è composto dalle dieci alle quindici persone. Le prime tre sedute mirano a far sentire sicuri i partecipanti. “All’inizio però nessuno ci riesce”, dice Emmanuel Sarabwe, ricercatore di Cbs Rwanda. “Ti ritrovi seduto in cerchio insieme ai familiari di chi ha ucciso i tuoi fratelli. O magari proprio con il colpevole. Alcuni partecipanti danno le spalle al resto del gruppo. Il disagio è palpabile”. Spesso durante i primi incontri si balla e si canta per alleggerire l’atmosfera. Pian piano si crea uno spirito di gruppo. Al centro della seconda serie di sedute c’è la fiducia. Cosa ti porta a fidarti di qualcuno? Le due fasi successive ruotano intorno alla cura e al rispetto. Di che tipo di cura hai bisogno? Che cura puoi offrire agli altri? Nelle ultime due fasi s’impara a guardare verso il futuro, a non lasciar dominare la propria vita dal passato e a riportare alla luce ricordi positivi. Quando ti sei sentito felice? Chi ti ha aiutato?

A destra, Liberatha Nyirasangwe, 70 anni: “Vidi arrivare degli uomini da lontano e scappai. In casa trovarono i gemelli di tre mesi e li pestarono a morte. Io mi nascosi in una piantagione di canna da zucchero. Hanno ucciso tutta la mia famiglia. Dopo il genocidio ero impazzita. Insultavo chiunque. Alcuni venivano a scusarsi. ‘Non vi perdonerò mai’, rispondevo. La mia follia è durata anni. Fino a quando mi hanno chiesto di seguire questa terapia. Le prime due volte mi sono venuti a prendere. La terza ho provato una punta di felicità. Mi ha aiutato il fatto che i colpevoli raccontassero la verità. Ho capito che anche loro sono esseri umani”. A sinistra, Alphonse Kanyemera, 78 anni: “Ho partecipato all’omicidio del fratello di Liberatha. Ho ucciso anche un prete con un coltello. Nel 1995 sono stato condannato a quindici anni di prigione. Mi sono ammalato gravemente. Ero convinto che le autorità mi avrebbero lasciato crepare, invece mi portarono in ospedale. C’era un’infermiera della mia zona, era una sopravvissuta. Mi diede qualcosa da bere. Gli altri detenuti mi dissero che voleva avvelenarmi. Ma io mi fidai di lei e cominciò ad andare meglio. Oggi io e Liberatha ci occupiamo uno dell’altra”.

“Ogni parola, ogni gesto, può essere il primo passo verso un avvicinamento”, dice Sarabwe. È di grande aiuto il fatto che i colpevoli raccontino con precisione come hanno compiuto i loro crimini e dove hanno sepolto le vittime. Inoltre è importante che i partecipanti condividano le proprie storie e che queste siano ascoltate attentamente. Un’affermazione ricorrente è: “Hanno sofferto anche loro”. Per Clever la terapia ha avuto come effetto la pietà. Per Elie, 40 anni, è stata una liberazione, mentre per Letetia, 59 anni, un modo “per sentirsi di nuovo una persona tra le persone, non più completamente sola”.◆ vf

A destra, Épiphanie Mukamazimpaka, 37 anni: “All’epoca avevo sette anni. La maggior parte della mia famiglia si era già rifugiata a casa dei miei nonni. Fratelli, sorelle, zii, i loro figli. Dal bosco vidi che gettavano benzina sulla casa e appiccavano il fuoco. Sentii i lamenti che venivano da dentro. Jean Baptiste (a sinistra nella foto) era presente. Nel gruppo di socioterapia ho imparato a non lasciarmi paralizzare dal passato. Anche lui ha sofferto”. Jean Baptiste Sibomana, 49 anni: “Sono stato dodici anni in prigione. E poi altri tre anni perché, da ubriaco, mi sono vantato del genocidio. Solo dopo ho capito di aver distrutto delle vite, inclusa la mia e quella della mia famiglia. Ho chiesto perdono a Épiphanie in ginocchio”.
A sinistra, Marianna Nyirantagorama, 58 anni: “Sono l’unica della mia famiglia a essere sopravvissuta. Mia madre e i miei sei fratelli sono in una fossa comune. Ho sempre fatto parte dei pochi sopravvissuti tra i tanti morti. Ho finto di essere morta sotto a cadaveri insanguinati. Marc (a destra nella foto) ha ucciso la mia sorella maggiore. Grazie alla terapia sono riuscita a perdonarlo. Ho visto il suo pentimento”. Marc Nyandekwe, 60 anni: “Sono stato in prigione per sei anni e nove mesi. Dopo essere uscito non avevo il coraggio di farmi vedere da Marianna. Prima mi sono chiuso in casa, poi sono andato a lavorare fuori. Ogni tanto tornavo dalla mia famiglia. Marianna ha detto a mia moglie che non c’era più bisogno che scappassi. Aveva visto quant’era povera la mia famiglia. Ci ha prestato dei soldi. Mi ha aiutato a trovare lavoro. La donna a cui ho ucciso la sorella mi ha tenuto in vita”.

Questo progetto è stato realizzato con il sostegno del fondo Mondriaan dedicato alle arti visive.

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Questo articolo è uscito sul numero 1556 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati