Descrivere gli album di debutto come molto attesi è un’ovvietà, ma nel caso della londinese Fabiana Palladino è davvero così. Sono tredici anni che l’artista pubblica canzoni online e da sette ha un contratto con un’etichetta che, come lei, non sembra avere fretta. Anzi con la Paul Institute il suo lavoro si è diradato ancora di più, pubblicando una canzone all’anno mentre faceva la turnista per Jessie Ware, Sampha e Jai Paul, fondatore della sua casa discografica. La lunga gestazione di questo album è il risultato del perfezionismo della cantautrice che, da figlia del famoso bassista Pino Palladino, ha usato l’agenda di papà, assicurandosi la presenza di ottimi musicisti. Potrebbe sembrare nepotismo, se non fosse che questi dieci ottimi brani non sono certo merito dei collaboratori. La musica è ancorata alla metà degli anni ottanta senza però risultare mai un esercizio di stile retrò, perché Palladino spalma elementi caotici molto contemporanei, come synth stonati e distorsioni sporche. L’incertezza si trova solo nei conflitti narrati nei testi, perché per il resto questo è un disco senza debolezze, concepito da qualcuno che sa bene cosa sta facendo.
Alexis Petridis, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1559 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati