Mahin (Farhadpour) ha settant’anni, è vedova da trenta ed è sola dopo che i figli sono emigrati. Vive alla periferia di Teheran e soffre di solitudine, finché non decide di prendere in mano la sua vita e ritrovare l’amore. Gettando al vento ogni cautela progetta una notte da ricordare piena di musica, danze e vino insieme al tassista Faramarz (Esmaeel Mehrabi). Ma i suoi piani trovano il modo di andare storti in questa bella, intima e tragicomica storia di un amore tardivo, con il repressivo regime iraniano sullo sfondo. A suo modo anche il film è sovversivo. A Moghaddam e Sanaeeha è stato impedito di andare a Berlino per la prima mondiale del loro film: le autorità gli hanno ritirato i passaporti a causa di alcune scene in cui si beve, tra l’altro senza hijab, e a una sequenza formidabile in cui Mahin affronta la polizia morale. Forse ancor più radicale è il fatto che Il mio giardino persiano si concentri su persone comuni, anziane e sole, una fascia di popolazione spesso trascurata dai film in tutto il mondo.
Wendy Ide, The Observer

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Questo articolo è uscito sul numero 1598 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati