La prima volta vidi Chelsea girls nella vetrina di City Lights, a San Francisco, nel 1994. Comprai il libro anche se non avevo soldi e lo lessi fino a consumarlo. Quando vivi così a lungo dentro un libro, a che punto diventa la tua vita? Nel racconto che dà il titolo al volume, Chelsea non è la squallida città del Massachusetts da cui Myles proviene, ma il Chelsea hotel di New York, teatro di amori, atti creativi e disastri. È lì che Eileen viene “scopata per la prima volta da una donna”, una cameriera dagli occhi celtici. Quella scena non è pornografia ma rivelazione. In Chelsea girls il sesso è apprendimento, un linguaggio da reinventare. Il libro è un atto di resistenza: essere donna, lesbica, povera e poeta negli anni settanta e ottanta significava esistere fuori da ogni convenzione. Myles racconta una giovinezza segnata da povertà e desiderio. La sua è una scrittura working class, radicata nei lavori precari e negli spazi di sopravvivenza. Chelsea girls obbliga il lettore a guardare, a riconoscere quella vita come letteratura. È un testo di culto del femminismo queer, ma anche un documento della classe lavoratrice americana, un canto di rabbia e desiderio, ironia e tristezza. Che questo libro sia stato fuori catalogo per anni è un vero peccato. Il fatto che sia di nuovo disponibile, pronto a cambiare la vita di chi lo trova, non è un miracolo: è giustizia. “Vorrei raccontare tutto una volta sola”, scrive Myles, “solo la mia parte, perché questa è la mia vita, non la tua”.
Michelle Tea, Los Angeles Review of Books
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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati