Ho sempre amato l’epifania più di ogni Natale e compleanno. Per il nome così luminoso: epifania , festa della manifestazione. Ma anche perché era il giorno della calza della befana, e l’idea che i regali avessero la misura di un contenitore mi emozionava.

Nonostante le sue dimensioni, la calza era imprevedibile. Impossibile intuire cosa nascondesse: una caramella, un temperamatite, un pugno di lenticchie, del carbone, un anellino. Ogni volta che mettevo la mano nella calza il mistero mi aspettava.

Anni dopo lessi Figure dell’infanzia: Walter Benjamin, giocando da bambino con le calze, imparò che “forma e contenuto, custodia e custodito sono la stessa cosa”. Ero così fedele alla befana che un anno decisi di essere buonissima per non ricevere carbone, e quando lei me lo lasciò provai un grande tormento. Ero stata cattiva senza saperlo!

Per il falò dell’epifania gli uomini del paese si vestivano da befane, ma spesso confondevano tra befane e donne, e tra donne e puttane: la festa era una sfilata di minigonne e décolleté, scope di boa di struzzo, calzamaglie a rete. Mi chiedevo: è davvero questa l’immagine che rimandiamo noi donne?

Poi ho scoperto che il carbone non era per la mia cattiveria, era un simbolo. E l’idea di donna che i maschi raccontavano con le loro mascherate era il simbolo di una mentalità che potevamo far sparire nel suo falò. Che la cara vecchia befana ci protegga.

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Questo articolo è uscito sul numero 1544 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati