Ogni volta che camminiamo lungo una strada israeliana, nel giro di un’ora potremmo probabilmente incappare in decine di comuni cittadini coinvolti nell’uccisione di palestinesi, armati e non, responsabili di sparatorie e ferimenti, della spoliazione e della distruzione delle case palestinesi, di interrogatori di detenuti palestinesi sottoposti a tortura, di abusi nei confronti loro e dei loro fratelli e sorelle ai posti di blocco, su una strada di Gerusalemme o in casa durante un raid notturno.

I comuni cittadini israeliani hanno sparato e sparano, hanno torturato e torturano, oppure hanno firmato e firmano ordini e pagano stipendi. Hanno approvato gli sgomberi di famiglie dalle loro abitazioni, e la generosa fornitura di acqua agli israeliani a danno dei palestinesi. Hanno progettato comode strade che tagliano i collegamenti tra le comunità palestinesi. Questi cittadini non portano le loro azioni scritte in fronte. Non si considerano dei criminali, degli assassini, dei ladri.

I nomi dei comandanti sono noti, ma in Israele non è consuetudine chiamarli criminale o assassino. Lo stesso vale per i politici che propongono leggi segregazioniste

Le azioni di queste centinaia di migliaia di israeliani sono note, ma non sono collegate personalmente ai loro responsabili: soldati e ufficiali sono protetti dal confortevole anonimato che lo stato gli garantisce. I loro nomi sono pubblicati solo in casi eccezionali. I nomi dei comandanti sono di pubblico dominio, ma in Israele non è consuetudine chiamarli criminale, assassino, ladro. Lo stesso vale per quei politici eletti che propongono leggi segregazioniste, per i capi di stato maggiore o per i direttori dello Shin bet, il servizio di sicurezza interna israeliano. Sarebbe un affronto associare questi terribili insulti al nome di un famoso ufficiale.

I militari dei ranghi inferiori, tra cui gli idolatrati piloti dei caccia, sono protetti dal segreto d’ufficio, radicato nella legislazione. Gli alti funzionari sono tutelati perché hanno operato al servizio dello stato.

Pertanto, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz e l’ex comandante delle forze aeree Amir Eshel, imputati nei Paesi Bassi in un processo per l’uccisione a Gaza di sei persone nel campo profughi di Al Bureij nel 2014, erano certi che i giudici avrebbero archiviato la causa civile nei loro confronti. La querela era stata presentata da Ismail Ziada, un cittadino olandese, e riguardava il bombardamento della sua casa di famiglia e la conseguente morte della madre Muftiah, settantenne, di tre dei suoi fratelli, Jamil, Yousef e Omar, della moglie di Jamil, Bayan, e del loro figlio dodicenne Shaban. La corte suprema olandese ha confermato le sentenze di due tribunali inferiori secondo cui Gantz ed Eshel – le persone che direttamente o indirettamente hanno dato l’ordine – hanno una “immunità funzionale”, che li protegge da procedimenti civili nei Paesi Bassi perché impegnati nelle operazioni israeliane. Un’inchiesta sull’incidente realizzata dallo stesso esercito israeliano ha rilevato che “l’entità del danno previsto a carico dei civili in conseguenza dell’attacco” (cioè l’uccisione di una nonna, di sua nuora e di sua nipote) “non sarebbe eccessiva in relazione al significativo vantaggio militare atteso”.

All’epoca era considerato ammissibile uccidere tre civili per eliminare quattro presunti combattenti. Oggi, come sappiamo dall’enorme numero di civili uccisi in ogni bombardamento a Gaza e dal bilancio di circa quindicimila bambini morti finora, la quantità di vittime civili indicata come ammissibile dai giuristi delle forze armate e dallo stato ai piloti e agli operatori dei droni è di venti, trenta, quaranta persone, o perfino di un intero quartiere di civili, per uccidere un singolo militante di Hamas.

Gli stati hanno ricevuto dalla storia e dai giuristi l’autorizzazione a usare la violenza contro i propri cittadini e contro altri stati. Anche quando questa violenza serve a opprimere popoli o minoranze.

Tutti i palestinesi nascono dentro questa ingiustizia innata: la violenza burocratica, militare e della polizia contro di loro, che ha stroncato decine di migliaia di vite ed espulso milioni di persone nel corso degli anni, è legale, dunque non è violenza ma autodifesa nobile e sublime eroismo. Al contrario, le azioni dei palestinesi – che si tratti di un manifesto, di un post sui social network, di una manifestazione, del lancio di pietre o di un attacco suicida – sono definite a priori come un crimine. Quindi un israeliano che uccide molti palestinesi è un eroe, mentre un palestinese che toglie la vita a un israeliano continua a essere punito perfino dopo la sua morte.

Questa è la realtà asimmetrica in cui era nato lo scrittore palestinese cittadino d’Israele Walid Daqqa e in cui è morto. L’eterno spirito di vendetta dello stato e di molti dei suoi cittadini lo ha tenuto rinchiuso per 38 anni in carcere, dove lui ha maturato la sua filosofia umanista. Questa stessa voglia di vendetta manda a ciascun palestinese il messaggio che la violenza israeliana non ha rimedio, anche se i giuristi non la considerano un crimine. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1561 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati