I n India il partito di governo ha votato per espellere dal parlamento il suo principale oppositore. Il 24 marzo Rahul Gandhi, leader del partito del Congress, ha perso il suo seggio nella lok sabha, la camera del popolo. Gli è stato anche vietato di presentarsi alle elezioni del prossimo anno. La decisione ha causato le proteste dei partiti d’opposizione, che hanno accusato il Bharatiya janata party (Bjp) del primo ministro Narendra Modi di violare le regole della democrazia pur di mettere a tacere una voce critica.

Gandhi, che siede in parlamento da 19 anni, è stato rimosso dopo che una corte di Surat, nello stato del Gujarat, la roccaforte elettorale del premier, lo ha giudicato colpevole di diffamazione. Nel 2019, durante un comizio elettorale, aveva chiesto se “tutti i ladri nel paese si chiamano Modi”, un riferimento a due uomini d’affari accusati di evasione fiscale, ma anche al capo del governo in corsa per la rielezione. Gandhi ha trenta giorni di tempo per ricorrere in appello contro la condanna a due anni di carcere, ma questo non ha impedito al presidente della camera di escluderlo dalla vita politica del paese, come prevede la legge. Con lui fuori dai giochi, per l’attuale premier ottenere un terzo mandato consecutivo alle elezioni del 2024 sarà ancora più facile.

In un’insolita dimostrazione di solidarietà, una decina partiti – di destra, di centro-sinistra, d’ispirazione marxista o legati alle caste – hanno criticato la rimozione di Gandhi, definendola un precedente pericoloso per le istituzioni politiche del paese.

“È un assassinio. E la vittima si chiama democrazia”, ha detto Uddhav Thackeray, leader di un partito di destra ed ex governatore dello stato del Maharashtra, in cui si trova il centro economico e finanziario di Mumbai. Secondo altri è “un atto di paura” e un tentativo di “mettere a tacere l’opposizione”. Hanno tutti chiesto a gran voce il ritiro del provvedimento.

Nel frattempo gli esponenti del partito del Congress hanno protestato nel Gujarat, a Rajpur, New Delhi e in molte altre parti dell’India, scontrandosi in alcune occasioni con la polizia. Dopo la decisione, Gandhi ha dichiarato di essere pronto ad andare in carcere. “Combatto per dare voce all’India”, ha scritto su Twitter. “Sono pronto a pagare qualsiasi prezzo”.

La resa dei conti

La decisione di far decadere Gandhi s’inserisce sullo sfondo degli allarmi lanciati da accademici, analisti politici e partiti dell’opposizione sull’avanzata dell’autoritarismo nel paese. Il 24 marzo, poche ore dopo l’espulsione di Gandhi, quattordici partiti dell’opposizione si sono rivolti alla corte suprema per chiedere d’impedire al governo di impiegare le forze di polizia per imbavagliare chi esprime dissenso. Nel corso di una conferenza stampa il portavoce del partito del Congress Abhishek Manu Singhvi ha dichiarato che la recente esclusione di Gandhi dalla vita politica rientra nel quadro più ampio del “sistematico e continuo processo di logoramento delle istituzioni democratiche messo in atto dal partito al potere”.

Da sapere
Un lungo cammino

Rahul Gandhi è l’ultimo esponente della dinastia politica più importante dell’India, che ha espresso tre primi ministri dall’indipendenza del paese. Bisnipote di Jawaharlal Nehru, nipote di Indira Gandhi e figlio di Rajiv Gandhi, Rahul Gandhi, 52 anni, non ha mai governato il paese. Al contrario, sotto la sua guida il partito del Congress ha toccato i minimi storici. Il Bjp, il partito nazionalista indù del premier Narendra Modi, non lo ha mai considerato un avversario credibile, al punto di riferirsi a lui nei comizi elettorali con il soprannome di pappu, bamboccione. La sua reputazione politica, però, è cambiata all’inizio di quest’anno: il 30 gennaio a Srinagar, la capitale del Jammu e Kashmir, Gandhi ha concluso la sua bharat jodo yatra, una marcia di quattromila chilometri cominciata cinque mesi prima nell’estremo sud dell’India per “unire il paese” e creare un progetto politico alternativo a quello di Modi. Bbc


Al contrario, alcuni esponenti del Bjp hanno gioito per la decisione, ritenendola una pena giusta per sanzionare il comportamento del leader dell’opposizione. Hanno anche precisato che è stata motivata da altri commenti pubblici offensivi della reputazione dell’India. Negli ultimi mesi, Gandhi era stato uno dei critici più duri del governo Modi e dei legami del primo ministro con il miliardario indiano Gautam Adani. A gennaio il gruppo industriale dell’uomo più ricco dell’India era stato accusato dal fondo d’investimento statunitense Hindenburg di aver gonfiato il valore delle azioni dell’azienda. La smentita, diffusa prima dell’apertura dei mercati dallo stesso Adani, non era riuscita a evitare perdite miliardarie.

In alcune dichiarazioni rilasciate nel corso di una visita nel Regno Unito all’inizio di marzo, ma trapelate solo di recente, Gandhi si era detto molto preoccupato per il declino della democrazia nel suo paese. Parole duramente condannate dai funzionari del Bjp, che le hanno giudicate un invito esplicito rivolto all’occidente a interferire negli affari interni dell’India. Per questo il partito al governo aveva chiesto le dimissioni di Gandhi pochi giorni prima della sentenza.

Parlando con i giornalisti, il ministro dell’ambiente Bhupender Yadav ha ribadito non solo che Gandhi ha diffamato la casta di Modi, ma che avrebbe fatto meglio a “lavorare per promuovere la democrazia del paese, invece di andare a Londra a insultarlo”.

Anche il ministro delle telecomunicazioni Anurag Thakur si è schierato a favore della sentenza: “Ormai per Rahul Gandhi lanciare accuse false, usare un linguaggio incivile, insultare le persone e dire parolacce è diventata un’abitudine”. Secondo Thakur l’espulsione è la prova del fatto che nessuno in India è al di sopra della legge. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1505 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati