Quindici anni fa il giovane regista Ilja Chržanovskij ha concepito un film biografico sul fisico sovietico Lev Landau, ispirandosi alle memorie della moglie Kora. Era solo il suo secondo film, ma poi si è trasformato in un progetto monumentale di settecento ore di pellicola. Il primo film che ne è stato tratto, _Dau – Natasha _ha girato (portando a casa premi e scandali) i principali festival del cinema internazionali.
Il progetto Dau necessita di una riflessione, perché è capace di suscitare reazioni forti e complesse anche tra chi non intende approfondire i risultati dei molti anni di lavoro di Ilja Chržanovskij e del suo team. Ma allo stesso tempo la ostacola, non permettendoci di arrivare al succo di ciò che, con una certa dose di convenzionalità, si può chiamare “film” (o serie di film) e che sta alla base del progetto.
La città set
Gli ostacoli principali sono tre. Il primo è lo sciame di voci scandalistiche e pettegolezzi sulle condizioni di lavoro durante le riprese. Niente di certo, visto che non sono state fatte denunce né per inadempimenti contrattuali né per danni morali o d’immagine. Il secondo è un budget scandalosamente enorme, concesso per qualche sconosciuta ragione al giovane regista. Una somma che ha permesso la costruzione a Charkiv, in Ucraina, non di una semplice scenografia, ma di una città vera e propria, abitata, che alla fine delle lunghissime riprese è stata distrutta. Dopo sono seguiti anni di lavoro sulle centinaia di ore filmate di ciò che probabilmente è il più grande e ambizioso progetto cinematografico di questo secolo. Com’è che Chržanovskij ha ottenuto tutto e subito? Il terzo ostacolo invece dipende direttamente dai creatori del progetto. L’installazione immersiva realizzata a Parigi, capace di calare il pubblico nell’atmosfera sovietica, sembrava mettere in ombra il film.
Che fosse un travestimento, uno stratagemma, come per dire che questo non è un film, ma arte contemporanea? Effettivamente, all’inizio della proiezione questo pensiero può passare per la mente. Ma alla fine si esce con una sensazione diversa. Cioè che, nonostante tutto, Dau – Nathasha è sempre un film. Con personaggi impossibili da dimenticare. Con un virtuosismo di ripresa per mano del geniale Jürgen Jürges. Sì, è un film, costituito da un’enorme quantità di materiale: finora ne sono stati montati solo tredici di diversa durata, ma ce ne saranno altri. Insomma, è il cinema come non si era mai visto.
_Dau _stabilisce rapporti fondamentalmente diversi tra film documentario e finzione, tra genuinità e imitazione. L’unica attrice professionista è Radmila Ščegoleva che, prima di essere ammessa nello spazio dell’Istituto, è stata sottoposta a un lungo e difficile svezzamento per farle dimenticare come si recita. L’Istituto è un edificio gigantesco, un vero e proprio impero costruito apposta per il film: il nome non è casuale. Qui sono stati condotti esperimenti sia sui partecipanti (si spera, volontari) sia sugli animali. A eccezione di Ščegoleva tutti interpretano più o meno se stessi. Gli scienziati in scena sono scienziati veri. Gli ufficiali dei servizi segreti sono davvero agenti del Kgb. Portieri, addetti alle pulizie, baristi; intellettuali, artisti, scrittori, registi, musicisti; studenti, pensionati, sacerdoti di tutte le religioni. Sono tutti veri. E falsi.
Dentro uno spazio diverso, vestite da capo a piedi con gli abiti degli anni quaranta o sessanta, dopo aver ricevuto i propri ruoli, queste persone sono diventate qualcun altro, continuando però a essere se stesse. Per questo si può dire che _Dau _è la più incredibile unione tra finzione e realtà nella storia del cinema. Liberi dalle inibizioni i personaggi si permettono di andare oltre. È per questo che le pratiche trasgressive – dalle violenze fisiche al sesso davanti alla telecamera – sono state condannate a priori dai difensori dei diritti umani, che magari il film non l’hanno visto. Capire cosa fanno (volontariamente) gli attori e cosa fanno (a volte contro la loro volontà) i loro personaggi è la sfumatura più difficile da cogliere.
È radicale, al limite del lecito, per esempio, il rapporto di una madre con il figlio adulto, peraltro persona “con specificità” (il ruolo è interpretato dal giovane musicista e cantautore Nikolaj Voronov, diventato famoso grazie a un video pubblicato su YouTube). Denis, il figlio di Dau (questo è il nome del protagonista, ispirato appunto al fisico Lev Landau) è sedotto dalla governante dei suoi genitori; poi dalla propria madre (interpretata da Ščegoleva). Fanno sesso. Il sesso è reale, non c’è dubbio. L’incesto è a 360 gradi. Nella realtà Ščegoleva e Voronov non sono madre e figlio, ma durante le riprese si sono avvicinati molto e sono diventati amanti. C’è qualcosa di sbagliato in questo? Sta allo spettatore decidere.
Tiranno o demiurgo
Una cosa è certa. Il sesso nei film è sempre o imitazione (il più delle volte) o, in rari casi, violenza (come in Ultimo tango a Parigi). In ogni caso, di regola, vediamo scene in cui persone estranee l’una all’altra stanno facendo il loro lavoro. Lo stesso vale per la pornografia. Dau entra in un territorio più intimo. Nessuno finora ha mai visto rapporti simili sullo schermo, e il segreto non sta nella mancanza di filtri: i protagonisti delle scene di sesso nel film lo fanno anche a telecamere spente perché sono (diventati) amanti. I sentimenti che vediamo sono reali. Come lo sono nell’incontro della moglie di Dau (Nora nel film, Kora nella realtà) con sua madre. Questa rimprovera alla figlia l’indifferenza, l’egoismo, l’incapacità di tenersi stretto il marito. La figlia piange, ricorda alla madre le offese passate. Uno spettacolo straziante paragonabile a Sinfonia d’autunno di Ingmar Bergman. In scena c’è la vera madre di Ščegoleva. Allo stesso tempo il marito (il direttore d’orchestra greco-russo che interpreta Dau, Teodor Currentzis) non è il vero marito, e il figlio non è suo figlio. È un gioco, una convenzione, un ruolo, ma i sentimenti sono genuini. I dialoghi sono improvvisati. Ma siamo ancora nell’universo convenzionale del cinema. Incredibile ma vero.
Così Dau ripensa radicalmente il ruolo dell’attore nel cinema. Da un lato rivela il potenziale attoriale in ognuno di noi e mostra chiaramente come l’“innaturale” sia di fatto genuino, mentre, ciò che al nostro occhio sembra “convincente”, è invece un’imitazione, un trucco. Dall’altra parte, annulla completamente la professione dell’attore in quanto non necessaria. Quantomeno nel contesto di questo esperimento.
Anche il ruolo del regista cambia. Ilja Chržanovskij nelle fantasie dei giornalisti appare come un tiranno che ha costruito un impero di repressione e violenza per averne il dominio assoluto. Non c’è nessun dubbio che questo gioco diverta Chržanovskij. Ma la realtà sullo schermo lo nega. Il mondo di Dau _è costruito come un’installazione totale proprio perché le persone che lo abitano possano muoversi liberamente, costruire traiettorie e destini individuali, gestire in autonomia ciò che dicono e fanno. Il regista ha inventato le regole. Tuttavia ci si è sottoposto lui stesso alla pari degli altri (un po’ come Lars von Trier nel movimento _Dogma 95). Ma la libertà che ha dato agli interpreti è davvero senza precedenti.
Forse è per questo che all’universo esterno al progetto – sull’orrore totalitario dell’Istituto e le umiliazioni subite dai suoi abitanti – si contrappone un universo interno: numerose storie di persone che hanno vissuto l’esperienza Dau e hanno cambiato completamente la propria vita, hanno cambiato professione, trovato l’amore, si sono sposate, sono uscite da una serie di sconfitte, si sono trasformate.
Laboratorio alchemico
La forma risponde al contenuto. Un paradosso nelle memorie di Kora Landau aveva sconvolto il regista, ossia l’inconcepibile libertà del pensiero e del corpo all’interno del sistema stalinista. Nell’Istituto accade quasi lo stesso. Questo film non è solo una sorta di parco giochi di enormi dimensioni che vuole ricreare l’inferno sovietico con i suoi servizi segreti onniscienti e onnipotenti, ma anche un laboratorio alchemico per forgiare un nuovo modello di essere umano che imparerà a ignorare le restrizioni sociali e a trasformarsi in qualcosa di più. Un essere che saprà amare, pensare, creare, senza prestare attenzione al contesto.
È sbagliato pensare che Chržanovskij non sia consapevole del pericolo di questa ambizione faustiana. L’ultimo film della serie, intitolato Dau, il più lungo del progetto (ha una versione corta di sei ore e una completa di dieci), mostra il crollo dell’utopico progetto e si conclude con la distruzione dell’Istituto.
Nel bel mezzo degli anni sessanta il tempo delle repressioni di massa è ormai alle spalle. I giovani stanno al passo con la moda, ballano al tempo di rock and roll e fumano spinelli di nascosto. All’Istituto avviene un colpo di stato: il voluttuoso direttore è sorpreso con l’ennesima segretaria e licenziato, il suo posto viene occupato dall’agente speciale Vladimir Ažippo (una vera guardia carceraria esperta, di gran lunga il personaggio più temibile del film). Poi i giovani scienziati sono catturati uno per uno, minacciati, messi sotto torchio e rasati con la forza. E all’improvviso scompaiono. Al loro posto compaiono altri ragazzi con la testa rasata. Forti, ottimisti, partecipano volentieri a esperimenti eugenetici: all’Istituto (come in un film d’azione hollywoodiano) cercano di creare “soldati universali”. Questi ruoli sono interpretati dal neonazista Maksim Martsinkevič, alias Tesak (morto in carcere in circostanze poco chiare nel 2020) e dai suoi scagnozzi. Sono loro a distruggere l’Istituto nel finale, su ordine diretto del Kgb. La loro anarchica orgia distruttiva è un’altra forma, intimidatoria, di libertà. E la porta si apre sui giorni nostri.
Si può discutere e chiederci all’infinito cosa sia Dau, se ci sia un contenuto altrettanto profondo e rilevante dietro questa forma assolutamente innovativa. Ovviamente ogni spettatore ci vedrà qualcosa di suo (e nessuno vedrà la stessa cosa). Ma l’idea centrale sembra troppo trasparente per non essere notata.
È anche un modo per fissare quell’eterna attrazione per il totalitarismo, il fascino del potere e la sottomissione masochistica a esso, nella cui nebbia continua a vivere una parte considerevole dello spazio post-sovietico. È una proposta per andare oltre il filo spinato, anche quello del formato cinematografico. È lo spettro della libertà che fa trasparire il pericolo dell’anarchia e la speranza nelle possibilità della mente umana: solo quest’ultima può resistere agli istinti e trasformare gli impulsi distruttivi in impulsi creativi. Eppure, per quanto ciò suoni idealistico, la speranza è nell’amore, a cui, tra l’altro, sono dedicati i migliori, i più incisivi film del monumentale Dau. ◆ ab
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Questo articolo è uscito sul numero 1425 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati