La mia migliore amica era Lila. Dicevano tutti che somigliava a un maschio. Non portava i capelli raccolti in treccine elaborate come le altre bambine della nostra strada. Aveva la testa liscia. Rasata quasi fino alla cute.

Vivevamo a Chatterton. Le nostre case erano vicine, su una via senza uscita che si chiamava Addison road. Alla fine della strada l’asfalto lasciava spazio a ettari di veld. Un sentiero che s’insinuava tra eucalipti giganti e blue gum portava alla scuola elementare del Sacro cuore. Ancora oggi vedo Lila che corre davanti a me in mezzo all’erba alta, l’ultimo giorno d’autunno. La sua uniforme scozzese increspata dal vento. Ansimando, le mani sulle ginocchia, alzo lo sguardo e vedo i gabbiani volare in circolo.

Non ho mai dovuto soffrire la precarietà dell’amore per i figli. È una cosa terribile, credo, guardare i figli crescere ed essere completamente impotenti di fronte al loro destino

“Vieni”, dice lei.

Ma io non ce la faccio. Le gambe, il petto, mi brucia tutto. Una sensazione che oggi riconosco come invidia mi stringe le valvole cardiache. Una femmina mi sta battendo nella corsa. Per quanto mi sforzi, so che non la prenderò mai. È la verità. Non la prenderò mai.

Ho trentasei anni. Vivo solo in un appartamento da single a Città del Capo, la città più lontana da Addison road dove la vita mi abbia portato. Non sono mai stato sposato né ho mai dovuto soffrire la precarietà dell’amore per i figli. È una cosa terribile, credo, guardare i figli crescere ed essere completamente impotenti di fronte al loro destino. Non avere voce in capitolo sulla loro vita o la loro morte. Potrei dirvi che non c’è giorno che non pensi a Lila o a suo padre con gli occhi stretti che cerca nella sterpaglia all’imbrunire, ma non sarebbe la verità. Non del tutto. Quell’inverno avevo nove anni. Eppure, certi giorni, mi sembra ieri che siamo andati a gridare nel bosco, con le mani a coppa intorno alla bocca. Il buio che filtrava dagli alberi mentre il suo nome riempiva l’aria.

“Perché non ne parli mai?”, chiede S.

Sono passati tanti anni da quando S. era uno studente post-dottorato del mio dipartimento; e, successivamente, anche il mio amante. I suoi occhi erano color del mare e i dreadlock biondi gli arrivavano fino alle spalle. Gli uomini del cantiere vicino al palazzo dove vivevo fischiavano ogni volta che passavamo. Sembrava una ragazza e, suppongo, ci vedevano qualcosa di scandaloso.

“Dovresti raccontarlo a qualcuno”, dice, tenendomi il mento nelle mani morbide.

Mi volto e distolgo lo sguardo. Verso il fascio di luce obliquo contro la parete della camera da letto. Non rispondo.

È come una favola nera. Quattro bambini andarono a correre nel bosco al tramonto. Tornarono a casa in tre…

È così che me la ricordo.

Vivevamo in un paese di uomini. Uomini segnati dalla guerra. Perseguitati dalle cose che avevano visto e fatto nei campi di battaglia. Avevano perso qualcosa di sé guadando i fiumi e le paludi nelle campagne con i kalashnikov in spalla.

Il nostro quartiere – un gruppo di case in stile coloniale olandese del Capo, che a metà degli anni ottanta era in declino – era stato desegregato dopo l’indipendenza. Tutte le volte che incontravamo uno dei nostri vicini – magari stava facendo una commissione, o tornava dal lavoro – ci avevano insegnato a chiedere prima come stavano gli uomini e solo dopo le donne.

Le donne facevano lavori da donne. Cucinavano e pulivano, vestivano i bambini o stavano alla cassa dei negozi.

“Io non sono una femmina, ci diceva continuamente Lila”. La gente aggrottava la fronte.

Lila apparteneva al mondo dei maschi. Era una di noi.

Eravamo i quattro moschettieri di Addison road: Tatenda, Hubert, Lila e io. La prima volta che varcammo i cancelli in ferro battuto della scuola del Sacro cuore, nel 1988, eravamo in cinque. Nella primavera di quell’anno il fratello gemello di Tatenda, Tafadwa, improvvisamente smise di ricordare i nostri nomi e le nostre facce. Un pomeriggio tardi trovai il padre dei gemelli, Israel, seduto di fronte a mio zio Levi nella nostra cucina. Sul piano grigio del tavolo c’erano i risultati di una risonanza magnetica. I medici avevano trovato delle lesioni nel cervello di Tafadwa. Piccoli puntini luminosi nella materia grigia.

“Oh, non ti preoccupare”, dice zio Levi, appannando gli occhiali e pulendoli subito con l’angolo della camicia.

“Dici?”. Israel inclina la testa e stringe gli occhi, appoggiandosi allo schienale della sedia.

“Vedrai. I medici sanno quello che fanno”.

Tafadwa morì a ottobre. Un giorno che aveva piovuto forte tutto il pomeriggio e fino alla sera tardi. La terra era ancora umida e fangosa la mattina della veglia. Io indossavo un cravattino a pallini. Cantammo Sweet hour of prayer, le spalle curve nell’aria gelida mentre gli uomini calavano la bara sotto terra. Lasciammo Tafadwa sotto un monticello di terra rossa vicino alla lapide di sua madre. Si formò un legame indissolubile tra noi quattro dopo di allora. La morte fa così. Ti lega alle persone.

L’ultimo venerdì del semestre, durante la ricreazione della mattina, noi quattro eravamo seduti su uno spiazzo d’erba dietro le tettoie per le biciclette. Di tanto in tanto dai campi da gioco arrivavano le voci degli altri bambini, ma la nostra attenzione era tutta per Tatenda. Ci stava raccontando dei soldati con le maschere antigas e la colonna di carri armati che avremmo visto attraversare il deserto al notiziario delle otto. Fumo nero che sale dai campi petroliferi in fiamme.

“George Bush sta bombardando”, dice Tatenda, la sua voce che sale di un’ottava, incantato dalle scene di caos e distruzione. L’America sta bombardando il diavolo!

Sentimmo suonare la campanella. Nella fretta di raggiungere l’auditorium, ci dividemmo per un attimo. Vidi di sfuggita lo zaino giallo di Lila, appeso alle sue spalle, che ondeggiava da una parte all’altra mentre scattava in testa alla fila.

Chiara Dattola

Lila era la più veloce nella corsa tra i bambini della nostra età, e io ancora non lo sapevo, ma quella era l’ultima volta che l’avrei vista correre in quel modo. A gambe levate. In quei momenti apparteneva solo a se stessa.

La scuola aveva convertito l’atrio in un cinema improvvisato. Il custode, Mongezi, con la salopette azzurra stretta in alcuni punti e larga in altri, aveva preso dei lunghi drappi di stoffa nera e li aveva fissati con una spillatrice per non far passare la luce del sole. Faceva su e giù da una scala a sei pioli fischiettando la melodia di Morning has broken. Più tardi, dopo che c’eravamo seduti sul parquet, Mongezi aveva fatto partire il proiettore a bobine sistemato sul retro della sala, azzittendoci ogni volta che le nostre voci si alzavano troppo e gli arrivavano all’orecchio. Quella sera, lo zaino giallo fu l’unica cosa di Lila che ritrovammo nel bosco.

“Venite qui”, grida uno dei poliziotti, la voce forte come un trombone. Gli uomini sono in piedi in semicerchio e respirano nella fredda aria notturna, gli sguardi puntati su una sacca gialla. Rivoltata, svuotata.

Lavoro come ricercatore al campus medico dell’università. La mia area di ricerca è la tubercolosi resistente ai farmaci. Passo molte ore da solo, a guardare le cose ai raggi x o al microscopio. A leggere e a scrivere articoli per le riviste. Il lavoro è gratificante. Complesso e pieno di misteri, così riesco a dimenticare me stesso.

Ma quando avevo vent’anni, c’erano volte in cui il desiderio familiare di riempire le ore vuote prima e dopo il lavoro con il sesso, con il contatto umano, mi travolgeva. Mi ero creato un alias per entrare nelle chat e nei siti d’incontri online. Inevitabilmente, questo aveva portato a una serie di relazioni senza futuro che non erano mai sfociate in nulla di concreto. Il desiderio ci rende sciocchi. Mi sono iscritto a Facebook dopo la fine della storia con S e il suo ritorno in Madagascar. Cercavano docenti nel suo ateneo, l’Université d’Antananarivo. Neanche una settimana dopo, ho ricevuto una richiesta di amicizia da Tatenda. Nella foto del profilo portava un vestito bianco più piccolo di una taglia ed era in piedi davanti a una congregazione di fedeli. Quella sera ho cancellato la mia pagina Facebook e ho spento il portatile.

Il padre di Lila era abituato a camminare con un bastone di metallo stretto tra le dita della mano sinistra. Da ragazzo era stato colpito dalle schegge di una bomba scoppiata durante la guerra. Si guadagnava da vivere facendo il radiologo all’ospedale pubblico della città. Portava sempre un paio di pantaloni grigi tenuti su da bretelle e un camice bianco macchiato d’inchiostro nero sul taschino. Quel fatidico pomeriggio, mi alzai dopo un pisolino e ritrovai il padre di Lila e Zio Levi che mi guardavano dall’alto come due guardie carcerarie. Una vista talmente fuori luogo che non sapevo se stavo sognando o se ero sveglio.

“Hai visto mia figlia?”. La voce è arcigna, impaziente. Che ci fa zio Levi a casa a quest’ora?

“Dov’è Lila?”.

Intontito, incapace di pensare in modo lucido, ci metto un po’ a rispondere. Dov’è Lila? Non lo so, vorrei dire, alzandomi lentamente in piedi. Ma prima che le parole mi escano dalla bocca, il padre di Lila mi dà uno schiaffo in faccia con il dorso della mano.

“Svegliati! Ti ho fatto una domanda”. Il padre di Lila ha la mano alzata. Pronta a colpire di nuovo. Ma zio Levi subito si mette in mezzo, come una barricata tra noi due.

“Calma, calma”, scandisce zio Levi, facendo uscire il padre di Lila dalla mia stanza e portandolo in cucina. “La troveremo. Vedrai”. Lo schiaffo mi brucia sottopelle. Ho il viso bollente. Gli occhi mi si offuscano per le lacrime, ma nonostante tutto sono determinato a non piangere. In cucina, il padre di Lila è in piedi al centro della stanza, appoggiato al bastone, e abbaia istruzioni come un sergente. Si fanno delle telefonate. Hubert e Tatenda sono convocati immediatamente e arrivano portandosi dietro i genitori, come ombre.

“Ma poi che ci andava a fare a giocare con i maschi?”, dice qualcuno. Anche se era un quartiere della classe media, per indole Chatterton era come qualsiasi altra periferia ad alta densità, attraversata da un vortice infinito di pettegolezzi, faide meschine e gelosie. C’era un che di scandaloso in una bambina con la testa pelata che si vestiva da maschio e aveva solo amici maschi. Tutto sarebbe finito male.

Chiara Dattola

Noi tre – Hubert, Tatenda e io – stiamo seduti con le mani sulle ginocchia, gli occhi sul pavimento, il respiro corto. Tre uomini condannati, davanti a un giudice e a un nugolo di testimoni.

“Dopo che siete usciti da scuola, ripetetemelo, cos’è successo? Cominciate dall’inizio”, dice il padre di Lila. C’interroga per avere delle risposte.

Sulla stanza scende il silenzio. Fuori, in lontananza, si sente il gorgogliare dei colombi e il borbottio basso di un camion. Il padre di Lila picchietta il bastone sul pavimento in vinile. Tap. Tap. Tap. Hubert rompe il silenzio.

“È stata un’idea di Tatenda”, dice. Parla senza alzare lo sguardo.

“Oh”, dice il padre di Lila.

Tiro su la testa per guardarlo. La mascella si serra, poi si rilassa, e il movimento mi fa venire in mente la storia che una volta ho sentito da zio Levi. Di quando, durante la guerra, il padre di Lila aveva passato la notte sdraiato in una donga, fingendosi morto, dopo che tutto il suo reggimento era stato ab­battuto.

“È stata un’idea di Tatenda vedere chi arrivava a casa prima”, dice Hubert.

“Io ho fatto Chiremba road. Non ho visto niente”, dico io. Le parole mi escono di getto, come acqua che spruzza da un tubo scoppiato.

“Anch’io”, dice Hubert. “Tatenda…”, continua, abbassando di più la testa verso il pavimento. “Tatenda e Lila sono passati per il bosco”, dice, senza fiato, come se un grande peso gli fosse stato tolto dalle spalle.

“Dov’è?”, dice il padre di Lila, picchiettando di nuovo il bastone sul pavimento.

“Non lo so”, risponde Tatenda, con il groppo in gola.

Le ricerche della bambina di nove anni della scuola elementare del Sacro cuore riprendono questa mattina. Lila Mhlanga è scomparsa ieri pomeriggio. L’ultima volta è stata vista allontanarsi dall’istituto scolastico

“Non lo sai? Non lo sai?”.

“Non lo…”.

“Che vuol dire che non lo sai? Alzati. Ora mi dirai la verità. In un modo o nell’altro scoprirò dov’è”. Tatenda non dice niente.

“Forza. Ho detto alzati!”.

Sono passati quasi trent’anni. Eppure, certe notti, sento un bambino che grida e batte i pugni contro una porta chiusa a chiave.

L’amore, il dolore, rende le persone animali.

Sabato. La mattina seguente ho sentito il nome di Lila crepitare tra le nuvole dei segnali radio. La manopola della radio a transistor sulla mensola della nostra cucina era perennemente sintonizzata su un canale di notizie e dibattiti.

Le ricerche della bambina di nove anni della scuola elementare del Sacro cuore riprendono questa mattina. Lila Mhlanga è scomparsa ieri pomeriggio. L’ultima volta è stata vista allontanarsi dall’istituto scolastico. Il commissario Shiriyapenga ha invitato chiunque sia al corrente di dove si trovi a chiamare lo 04 572 457 o a presentarsi al più vicino commissariato di polizia.

La nostra strada rimbombava del frastuono delle voci alte mentre le ricerche riprendevano con la luce del giorno. Come ho già detto, il nostro era uno di quei quartieri che si possono definire molto uniti e così, quando si era diffusa la notizia della scomparsa di Lila, tutti si erano mobilitati. La chiesa presbiteriana su Henderson road stampò gratis una risma di volantini e una delle maestre della Sacro cuore si prese la briga di chiamare un suo parente che aveva un incarico importante nella polizia. Con tante mani e gambe volenterose, l’area delle ricerche si allargò fino ad abbracciare anche i quartieri vicini: Braeside, Queensdale, Chadcombe e Highlands, la baraccopoli a sud di dove stavamo noi.

Zio Levi mi aveva dato l’ordine tassativo di non uscire di casa.

“Già è abbastanza grave che sia scomparsa una bambina”.

Anche se era un quartiere della classe media, per indole Chatterton era come qualsiasi altra periferia ad alta densità, attraversata da un vortice infinito di pettegolezzi, faide meschine e gelosie

Nonostante le preoccupazioni di zio Levi, uscii e andai a casa di Tatenda. Trovai Israel seduto su una poltrona di vimini in veranda, le gambe ossute che spuntavano da un accappatoio giallo acceso pieno di macchie, una bottiglia mezza vuota di brandy Chateau sul tavolino accanto.

“Buongiorno”, dico, abbassando la testa come ci è stato insegnato. Israel mi guarda con gli occhi arrossati, il viso contorto in una smorfia. Si gira verso il tavolino, prende la mezza bottiglia e svuota quel che ne rimane in un bicchiere di cristallo intagliato.

“C’è Tatenda…”.

Israel fa segno di sì, portandosi il bicchiere alle labbra.

Entrando nella stanza di Tatenda, mi ricordo dell’odore di fluido per la conservazione dei cadaveri di cui era impregnata la casa dopo che le donne avevano lavato il corpo di Tafadwa. Le tende sono abbassate e la stanza è buia. Tatenda è steso sul letto, a faccia in giù, nudo. Nella luce fioca vedo i segni delle bastonate sulla schiena.

“Non lo so…”. È tutto quello che Tatenda riesce a dire prima che gli s’incrini la voce. Soffoca il pianto nel cuscino.

Domenica. Ero sicuro che fosse la scena di un sogno: il telefono che squilla e poi viene lasciato dondolare attaccato al cavo, voci alte e concitate nel buio, passi che tamburellano sul pavimento, il tintinnare delle chiavi, la porta di fronte che si apre e poi si chiude sbattendo.

“Siediti”, dice zio Levi quando mi vede entrare in cucina.

Zio Levi è seduto con i gomiti appoggiati al tavolo, le mani strette intorno a una tazza di caffè.

“Lila”.

Zio Levi annuisce.

Lila è ancora viva, per miracolo. È stata trovata tra i cespugli da un passante lungo un binario in disuso a Cranborne. Un diciassettenne che viveva nella zona si era fermato per accendere una sigaretta mentre tornava a casa. In quel punto non ci sono lampioni da una parte né dall’altra. Fermandosi per cercare in tasca una scatola di fiammiferi ha sentito un rumore. Un tramestio nelle foglie seguito da un breve gemito. Si è avvicinato. Nel buio, al chiaro di luna, è riuscito a distinguere una mano e i segni di una corda sul polso. È indietreggiato e si è guardato intorno, poi si è avvicinato di nuovo. Questa volta ha fissato lo sguardo sul resto del corpo, pieno di lividi e gravemente ustionato. Il ragazzo è corso a cercare aiuto.

Lila apparteneva al mondo dei maschi. Era una di noi. Eravamo i quattro moschettieri di Addison road: Tatenda, Hubert, Lila e io

Nel giro di un’ora la zona è stata transennata e c’erano ovunque agenti e cani poliziotto. Il ragazzo ha detto a un commissario presente sulla scena che Lila ha provato a dire qualcosa prima di perdere conoscenza.

Ha detto un nome, o l’inizio di un nome: “Mo…”.

Due lettere che avrebbero messo in moto gli eventi successivi.

“È Mongezi”, dice il padre di Lila, rispondendo alle parole del commissario.

Ripete il nome al telefono diverse volte quel­la notte.

“Mongezi. È sicuro?”.

“Sì, il custode”.

Come Lila, Mongezi era diverso. Era stato bollato come straniero perché parlava una lingua diversa dalla nostra. Aveva la pelle chiara quanto noi ce l’avevamo scura. A neanche vent’anni, Mongezi era scappato di notte dai pogrom nel sud del paese su una Peu­geot 403, con il cuore in gola.

Mongezi avrebbe continuato a guidare, ma il motore della Peugeot aveva cominciato a tossire e ansimare e l’aveva abbandonato proprio di fronte alla Sacro cuore. Mongezi lo prese come un segno e si offrì di tagliare l’erba e di fare dei lavoretti in cambio di metà del salario stabilito, vitto e alloggio.

Quando Mongezi quella notte sentì il coro delle voci che lo chiamavano, voci cariche della violenza degli uomini, dopo sei anni la Peugeot era ancora nascosta sotto un albero di mango nel cortile.

Lunedì. La mattina siamo andati a trovare Lila. L’ospedale l’aveva sistemata in una stanza alla fine di un lungo corridoio al nono piano dove i bambini non potevano entrare. Zio Levi mi ha strizzato la spalla prima di scomparire nel corridoio stretto. Mi sono seduto su una panca di metallo nella sala d’aspetto e mi sono messo a guardare un documentario sulle balene nel mar Mediterraneo, cullato dal tono dolce e monocorde della voce narrante e dal suono delle scarpe che scricchiolavano sul pavimento di linoleum nell’andirivieni dei visitatori.

“Sta morendo?”, chiedo a zio Levi quando esce. Immagino Lila bloccata che respira attraverso un reticolo di tubi.

Mi guarda con occhi malinconici, scuote la testa.

È passata una settimana, poi due.

La polizia ha chiesto per un paio di giorni informazioni su Mongezi ma nessuno sapeva niente. Il fabbricato in cui abitava era bruciato nella notte con lui dentro.

Come Tafadwa, Lila non uscì viva dall’ospedale. Il giorno dei funerali c’era una nebbia fittissima. I residenti di Chatterton vennero tutti per dire addio alla bambina che sembrava un maschio.

Il cappellano della chiesa presbiteriana di Henderson road lesse un passaggio del libro delle Lamentazioni. Ma, se affligge, ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà. L’omelia fu interrotta a metà dal ruggito meccanico di un tagliaerba. Tutti ci girammo per individuare l’origine del rumore.

Era il padre di Lila. Stava lì, con il tagliaerba ai piedi, a guardare le nostre facce e i garofani bianchi sulla bara. Scuoteva la testa e le sue clavicole si muovevano su e giù, come quelle di un uomo che sta affogando e lotta contro le onde.

Pensavo di essermi lasciato tutto alle spalle. Ma una parte di me è rimasta nel veld, tra l’erba alta e il sussurro delle chiome degli alberi. Vedo Lila che corre davanti a me. I passeri volano in circolo nell’azzurro immacolato del cielo sopra di noi.

“Vieni”, dice.

Questa doveva essere una storia d’amore, ma ora mi rendo conto che vi ho parlato solo di fantasmi. ◆

Bongani Kona è uno scrittore e giornalista nato nel 1985 ad Harare, nello Zimbabwe. Insegna alla facoltà di storia dell’università del Western Cape, a Città del Capo. Il racconto di queste pagine, il cui titolo originale è Lila, è uscito nella raccolta Hair: weaving & unpicking stories of identity. La traduzione è di Fabrizio Saulini.

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Questo articolo è uscito sul numero 1492 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati