Una città così piccola che si potrebbe tenere nel palmo di una mano, ma grande per la sua storia, al tempo stesso ebraica, musulmana, araba e berbera. È lontana dalla confusione e vicina a montagne e pianure, con foreste di cedri, fonti d’acqua dolce e laghi. Il visitatore capisce subito che non è solo una città ma anche un grande spazio verde. È Sefrou, uno degli insediamenti più antichi del Marocco.
Si trova alle pendici del Medio Atlante, a 850 metri sul livello del mare. Ci sono cedri, ciliegi, ulivi, parchi ombreggiati e cascate, caratteristiche che hanno spinto i francesi, durante il protettorato (dal 1912 al 1956), a definirla il giardino del Marocco. E gli ebrei, che prima della migrazione in Palestina erano la maggioranza della popolazione, l’hanno chiamata piccola Gerusalemme o paradiso del frutto dei re, con riferimento alle ciliegie.
Charles de Foucauld, monaco ed esploratore francese, in Reconnaissance au Maroc (Riconoscenza al Marocco), un diario di viaggio tenuto tra il 1883 e il 1884, lodava la vegetazione rigogliosa della zona: alberi maestosi e vasti giardini dove si poteva godere il fresco.
Il nome Sefrou proviene dalla lingua berbera e ha diverse spiegazioni possibili. C’è chi lo mette in relazione con la parola assefrawou (regione arroccata); altri lo fanno risalire alle parole: as (luogo) ed efrou (nascosto). Mohammed Kamal Merini, che ha scritto Sefrou nei miei pensieri (non tradotto in italiano), invece propende per una terza ipotesi: deriverebbe dal nome arabo della ginestra. Altri ancora collegano il nome a una tribù berbera ebraica convertita all’islam, gli ahl sefrou, tra i primi ad aver popolato la regione.
Ricercatori e storici hanno opinioni diverse anche sulla data in cui è stata fondata la città. Molti dicono che è più antica di Fès. Lo dimostrerebbe la frase pronunciata dal sultano Idris II: “Andrò dalla città di Sefrou verso il villaggio di Fès”.
Tuttavia secondo Merini non ci si può basare su un semplice racconto orale: servono documenti, scavi archeologici o altre prove concrete.
Quel che è certo è che la città esiste da molto tempo, da prima dell’arrivo dell’islam nel Maghreb alla fine del settimo secolo. Alcune scoperte archeologiche di oggetti usati per dei riti pagani indicano che era abitata prima che in Marocco arrivassero l’ebraismo e il cristianesimo.
Bottoni di seta
Per gli abitanti Sefrou è il paradiso del frutto dei re, e in effetti il “frutto dei re”, la ciliegia, ha un ruolo importante. Qui ogni anno si organizza il festival della ciliegia, la più antica manifestazione di questo tipo in Marocco.
La prima edizione si tenne nel 1919 e fu proposta da Pierre Séguy, governatore di Sefrou, che s’ispirò a una festa simile organizzata nella sua città natale vicino a Tolosa. Nel 2012 la manifestazione è entrata a far parte del patrimonio immateriale dell’Unesco. Zohour, 64 anni, che abita a Sefrou, spiega che le ciliege possono servire per curare la gotta.
Sefrou è nota anche come la capitale mondiale della fabbricazione dei bottoni di seta, chiamati aqqad, usati per i vestiti tradizionali tra i quali la gellaba (la tipica tunica tradizionale), la takchita (un abito femminile) e il caftano. Basta camminare nei vicoli della città per vedere le donne riunite davanti alle porte di casa intente a fabbricare gli aqqad.
Amina Yabis, presidente di una cooperativa per la fabbricazione di bottoni di seta e di tessuti, spiega che questo mestiere è molto radicato a Sefrou e che in origine era appannaggio degli abitanti ebrei. Fu sotto il protettorato francese che l’attività prese piede in maniera pacifica anche tra i musulmani. Sefrou possiede inoltre un ricco patrimonio storico che testimonia l’importanza della città in Marocco.
Merini racconta che “la città ha molti monumenti, tra cui le mura con le quattro porte monumentali, alle quali bisogna aggiungere tre porte di creazione più recente: l’ultima è del 1930”. All’interno delle mura si trova un forte, uno dei più vecchi edifici della città, di cui è stato il nucleo principale.
Tra le varie cose da vedere c’è la grotta del credente, in passato conosciuta come la grotta dell’ebreo, uno dei più antichi luoghi di culto della città. E poi le moschee di epoca merinide (una dinastia che ha regnato in Marocco dal tredicesimo al quindicesimo secolo). Tra queste c’è la grande moschea, menzionata da Hassan al Wazzan, il geografo ed esploratore berbero conosciuto con il nome di Leone l’Africano (vissuto nel quindicesimo secolo) nel libro _Della descrittione dell’Africa et delle cose notabili che ivi sono _(Venezia 1550).
Il fascino della città è dovuto alla varietà dei palazzi e delle case, che si ispirano allo stile rustico dell’Atlante e a quello andaluso, risalente ai tempi in cui i mori una volta cacciati dalla Spagna si trasferirono a Sefrou. Tra i palazzi c’è il riad Caid Omar.
Abdelhak Ghandi, presidente di un’organizzazione ambientalista a Sefrou, sottolinea pure “la varietà naturalistica del luogo, con la catena montuosa del Bouiblane, coperta di neve gran parte dell’anno”. Per non parlare della ricchezza della città dal punto di vista idrico grazie ai corsi d’acqua sotterranei e di superficie, come l’uadi (torrente) Aggai, che non è mai secco e ha una cascata che è una delle principali attrazioni. Parte dall’alto della montagna, in mezzo ad alberi imponenti, ed è una gioia per i turisti che in estate cercano un po’ di refrigerio.
La campagna è parte integrante di Sefrou. Oltre a dare ossigeno alla città è una sorta di sua continuazione: un territorio apprezzato per la coltivazione delle ciliegie, così come delle mele, delle pere e delle carrube, e arricchito dalla produzione di olio d’oliva, di cereali e di ortaggi. Dal punto di vista naturalistico, infine, non si possono dimenticare le foreste di cedro. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1604 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati