Da alcune settimane si susseguono gli avvertimenti della Turchia su un imminente intervento militare contro le milizie curde nel nordest della Siria. Il 7 gennaio il ministro degli esteri turco Hakan Fidan ha fatto la voce grossa dichiarando all’emittente Cnn Türk: “Faremo ciò che è necessario”. Ha inoltre minacciato un’operazione “antiterrorismo” se le forze curde in Siria non accetteranno le condizioni di Ankara, come lo scioglimento delle Unità di protezione popolare (Ypg), che costituiscono il cuore delle Forze democratiche siriane (Fds). La Turchia le considera un’estensione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), a sua volta ritenuto un gruppo terroristico.

Secondo il ricercatore Bayram Balci, del Centro di ricerche internazionali dell’università Sciences Po di Parigi, “Ankara stava pianificando da mesi un’operazione contro il Pkk nel nord della Siria”, giustificandola con l’idea che l’organizzazione “controlla le Ypg”. In questo modo si allungherebbe la lista delle campagne militari condotte dalla Turchia in Siria: l’operazione Scudo dell’Eufrate nel 2016-2017, l’operazione Sorgente di pace nel 2019 e l’operazione Artiglio-spada nel 2022.

La Turchia, spiega Balci, “non è ancora intervenuta perché c’è stato un cambio di potere a Damasco”, dopo che i gruppi ribelli hanno rovesciato il regime di Bashar al Assad l’8 dicembre scorso. Ma sembra che ormai sia pronta a farlo. Intanto si sono intensificate le attività militari dei gruppi siriani filo-turchi, che hanno approfittato dell’avanzata ribelle su Damasco per scontrarsi con le forze curde. Il 9 gennaio ci sono stati “violenti combattimenti vicino a Manbij” tra le Fds e le fazioni filoturche dell’Esercito nazionale siriano (Ens), supportate dall’aviazione di Ankara. In questi scontri l’ong Osservatorio siriano per i diritti umani ha registrato almeno 37 morti, tra cui cinque civili.

Negoziati con Washington

“Se la Turchia porterà avanti un’operazione oltre il confine, un’eventualità che non si può escludere, ci saranno delle complicazioni. In primo luogo con il nuovo governo di transizione siriano, ma soprattutto con l’amministrazione statunitense, che non ha ancora espresso una posizione chiara sulla Siria”, osserva Sinan Ülgen, direttore del centro studi Edam di Istanbul.

Da una parte, le autorità siriane guidate dal gruppo Hayat tahrir al Sham (Hts), che si mostra vicino ad Ankara, stanno cercando di trovare un’intesa con le minoranze del paese e di ricostruire un esercito nazionale chiedendo alle Fds di unirsi. È una condizione indispensabile per riportare la stabilità in un paese frammentato da più di un decennio di guerra e dove la Turchia è vista come garante del successo della transizione. I gruppi armati curdi hanno fatto sapere al ministero della difesa di volersi unire all’esercito, ma hanno posto delle condizioni, in particolare sulla fine degli attacchi delle fazioni filoturche e sulla propria autonomia.

In ogni caso qualsiasi accordo dovrà essere discusso con gli Stati Uniti, alleati delle Fds nella lotta contro il gruppo Stato islamico (Is). Il segretario di stato di Wash­ington Antony Blinken ha mostrato “comprensione per le preoccupazioni in materia di sicurezza” della Turchia riguardo al Pkk e il suo collega della difesa Lloyd Austin prevede il mantenimento dei duemila soldati statunitensi in Siria (di recente il Pentagono ha aumentato il contingente di novecento militari che era presente nel paese).

Le relazioni di Damasco

◆ Il 10 gennaio 2025 il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani ha incontrato il nuovo leader siriano Ahmed al Sharaa, noto in precedenza con il nome di battaglia Mohammed al Jolani. Tajani si è riunito anche con il suo collega Asaad Hassan al Shaibani, che ha annunciato una prossima visita europea. Il giorno dopo è arrivato a Damasco Najab Miqati, il premier libanese alla fine del suo incarico, nella prima visita di un rappresentante del governo di Beirut nel paese vicino dallo scoppio della rivoluzione siriana nel 2011. Afp


Il comandante delle Fds Mazloum Abdi ha chiesto al prossimo presidente statunitense Donald Trump di mantenere una presenza militare nella regione, avvertendo che un ritiro delle truppe americane potrebbe far riemergere la minaccia dell’Is in Siria. Ma il presidente eletto non ha ancora una strategia chiara rispetto alle forze curde. Questa incertezza potrebbe giocare a favore di Ankara, anche alla luce del fatto che Trump ha recentemente elogiato la sua “amicizia” con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

Ambizioni più modeste

La Turchia vuole mostrarsi come una forza stabilizzatrice. Per questo Hakan Fidan ha dichiarato l’8 gennaio che, se la Siria non fosse in grado di controllare i campi dove sono rinchiusi gli ex militanti dell’Is, Ankara è pronta a farlo. Allo stesso tempo ha ribadito la richiesta a Washington di mettere fine all’alleanza con le Fds.

La proposta turca sembra essere un sabotaggio della strategia curda per mantenere il controllo sul nordest della Siria. “I campi di prigionia sono usati dal Pkk come uno strumento di ricatto: se l’organizzazione subirà troppe pressioni da Ankara, potrebbe dire che è costretta a rinunciare alla lotta contro l’Is e a liberare i prigionieri”, spiega Balci. Questo sicuramente infastidirebbe i paesi occidentali, da cui provengono vari detenuti jihadisti.

Una gestione turca, però, sembra poco realistica, osserva Ülgen: “Se non arriverà una svolta con le Fds, sarà impossibile che la Turchia si assuma la responsabilità di quei prigionieri, dal momento che i campi si trovano proprio nel mezzo del territorio controllato dai curdi”. Secondo Balci, le ambizioni di Ankara sarebbero in realtà più modeste: negoziare con i nuovi leader di Damasco affinché disarmino le milizie curde e si occupino di queste prigioni, e a lungo termine fare in modo che “alcuni combattenti curdi siano integrati nell’esercito siriano”.

Ankara preferirebbe questa soluzione a un’operazione militare che rischia di compromettere le sue relazioni con Damasco, e soprattutto con Washington. Per il momento la sua strategia sembra basarsi sul mantenimento “della pressione diplomatica” per “disarmare i combattenti curdi, in modo che non rappresentino più una minaccia”, afferma Ülgen.

Le forze curde sembrano aver recepito il messaggio: l’8 gennaio Abdi ha dichiarato di essersi accordato con il governo di Damasco per unirsi all’esercito siriano, rinunciando a qualsiasi “divisione”. “Siamo d’accordo sull’importanza dell’unità e dell’integrità territoriale della Siria”, ha detto. “Rifiutiamo qualsiasi divisione che possa minacciare l’unità del paese”. ◆ adg

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Questo articolo è uscito sul numero 1597 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati