Dallo scorso anno l’etichetta Fire Records – che cura le uscite di Kristin Hersh, The Dream Syndicate e Giant Sand – pubblica Marta Del Grandi, cantante e compositrice di origini milanesi che guarda altrove e ha fatto buon uso della sua formazione jazz nel disco di esordio Until we fossilize (2021). Basta sentire Birdsong per riconoscere la sua lingua madre musicale, dove la voce è sia espressione di significato sia strumento. Ci sarebbe da dire molto sulle impressioni di fragilità e di forza che può generare una voce come quella di Del Grandi, che viaggia dalla concretezza della west coast alla rarefazione delle cime nepalesi, dove ha insegnato jazz al conservatorio.

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Del Grandi si connette alla tradizione delle cantautrici folk statunitensi per destrutturarla, come hanno fatto molte autrici indipendenti a partire dalla fine degli anni duemila, per approdare a risultati di un’eleganza ammirevole: ascoltando Shy heart si percepisce tutto il viaggio non solo di un genere musicale, ma anche di una coscienza femminile che sovverte i soliti rapporti tra fragilità e forza. Una voce al limite del sussurro, su basi altrettanto scarne (Lullaby firefly), non dice che si sta spezzando, ma che può spezzarti: e non a caso è la modulazione che si usa nelle ninne nanne, perché ci vuole consapevolezza per accompagnarti nel buio. L’ultimo singolo, Stay, fa un passaggio ulteriore: la voce acquisisce nitidezza e la base diventa quasi orchestrale. E allora è facile immaginare che Marta Del Grandi, dopo la costa e la montagna, finirà in un teatro di città. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1489 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati