Tra i miei grandi rimpianti da spettatrice di concerti c’è l’aver mancato alla fine dello scorso novembre il Transmissions festival a Ravenna, organizzato dall’illuminato Chris Angiolini (Bronson, Hana-Bi e molte cose belle che succedono da quelle parti).

Oltre ad avere in cartellone due artiste del calibro di Lucrecia Dalt e Silvia Tarozzi, che hanno messo in circolazione alcuni dei dischi sognanti e sperimentali più suasivi degli ultimi anni, sarebbe stata l’occasione ideale per approfondire ulteriormente l’universo sonoro e le idee che girano in testa a Marta Salogni, ingegnera del suono e produttrice che ha curato la line up dell’ultima edizione.

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In questi giorni il nome di Salogni circola soprattutto in relazione a Memento mori dei Depeche Mode, un disco riuscito perché rassicurante e sinistro allo stesso tempo, che conferma i desideri associati alla storia della band e li cala in un’oscurità che sa evolversi, una sostanza mutaforme che fa sentire imprigionati nello stesso videogioco gotico in cui però cambiano sempre i fondali.

Il merito di questo flusso liquido e plumbeo dalla finezza contemporanea è molto di Salogni, che dopo il liceo si è trasferita dalla provincia di Brescia a Londra e ha avviato una carriera che ha già un alone un po’ leggendario: l’apprendimento di un mestiere, la ricerca e la fortuna di trovare dei mentori, l’esplosione di una cifra personale, il lavoro che arriva a comprendere tutti gli aspetti profondi e strutturali della musica, dato che i produttori tirano fuori l’inconscio dei dischi. Tutto quello che fa, fa venire voglia. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1505 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati