Era da tempo che volevo assistere a un concerto di Valentina Magaletti, batterista di origini baresi trapiantata nel Regno Unito da diversi anni. Ho vissuto a lungo vicino al Cafe Oto di Londra, il leggendario “scantinato” culturale che ospita performance e improvvisazioni dei migliori musicisti sperimentali in circolazione e che ha pubblicato l’apprezzato A queer anthology of drums di Magaletti nel 2020 (il disco è apparso in forma fisica grazie alla bié Records nel 2022 con l’aggiunta di un brano inedito).

Però ho potuto sentirla per la prima volta solo al Romaeuropa Festival. C’è un che di spettrale nell’assistere alla performance di una musicista in una conversazione solitaria con il suo strumento, ma nonostante questa esclusività della presenza, Valentina Magaletti sa convocare un mondo intero, anche grazie ai field recordings che imperversano nei brani. Spogliata dalle sue retoriche di fracasso e rabbia, la batteria di Magaletti è uno strumento laconico e affollato allo stesso tempo, dotato di una nervosa eleganza. In un momento in cui patisco l’evocare di magie e stregonerie a casaccio all’interno dei discorsi femministi, grazie a Magaletti rientro in un circolo di spiritualità che passa attraverso tante geografie, ma mantiene un che di costantemente arcano. Qualcosa che trascende il genere, prima di arrivare a un finale che per me ha echi quasi storico-politici, perché mi ricorda l’inaspettato arrivo di una forza autoritaria nella giungla e tutta l’energia che sarà necessario raccattare per resisterle. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati