La cultura bellica ha eroicizzato per troppi secoli il guerriero che allarga i confini di città, nazioni e imperi. E da sempre ha reso eccitante, avvincente, il colpo di lancia, o altra arma, che rompe il naso, spezza i denti, mozza la lingua, squarcia il mento. Certo, a noi esseri umani – buoni e farabutti, ben educati e beceri – viene naturale ritrarci inorriditi di fronte ai misfatti dell’esercito nemico e, caso mai, del nostro. Abbondano gli “ah, mai più orrori del genere, mai più”, pronunciati in pompa magna dopo una guerra locale o mondiale. Ma lo facciamo, scioccati, solo a orrori compiuti. Questo perché non ci riesce proprio di inorridire preventivamente e imparare ad avvertire quasi per istinto che impugnare le armi comporta sempre il cedimento della fragile costruzione dell’umano e il prevalere della disumanità più spietata. Di conseguenza continuiamo a meravigliarci quando, insieme ai ponti, agli edifici, a quel po’ di convivenza civile che siamo riusciti a realizzare, sono violati e fatti a pezzi corpi vivi ai quali la guerra ha assegnato all’improvviso assai meno valore che a una mosca d’estate o alle formiche sul lavello. “Mai più”, dunque, per via dello spirito guerriero che – gratta gratta – ci ruggisce dentro, è un’espressione di ipocrita solennità e di frivolo ottimismo. Solo chi impara a essere audacemente imbelle forse ha il diritto di dire “mai più”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1455 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati