George Eliot (1819-1880), che ha scritto romanzi non solo appassionanti ma anche pieni di intelligenza, a un certo punto, nel bel mezzo del Mulino sulla Floss (1860), concepisce le seguenti righe: “V’è da chiedersi se verrebbe mantenuto un esercito qualora non vi fosse gente pacifica a casa a cui piace fantasticare d’essere dei soldati. La guerra, come tutti gli spettacoli drammatici, potrebbe forse cessare in mancanza di un ‘pubblico’”. La riflessione è di grande interesse. Chi vive in pace a casa propria può allegramente godere di costose parate militari e immaginarsi comodamente stratega o eroico combattente che procombe (cioè cade morto a terra) per amor di patria. Quando siamo al sicuro, cioè, le armi, il sangue, sono nient’altro che impressionanti arnesi scenici per distruzioni e massacri che consumiamo come finzioni. Lo vediamo bene oggi, quando il rissoso pubblico che fruisce dello spettacolo bellico o si sovreccita come se fosse non nel suo soggiorno ma nel pieno della battaglia o fa lo spettatore scafato che critica la regia inesperta, il montaggio inefficace, la musica chiassosa, i dialoghi inverosimili. È fondato, dunque, che se smettessimo di fare il pubblico cesserebbe la guerra? No, la stessa Eliot è dubbiosa. Cesserebbe forse lo spettacolo, ma la guerra no. La guerra, a lasciarle ampliare il suo teatro, divora anche spettacoli e spettatori.

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Questo articolo è uscito sul numero 1457 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati