Per l’udienza preliminare del processo contro lo stabilimento chimico della Miteni si sono date appuntamento l’8 giugno davanti al tribunale di Vicenza. Indossano delle magliette che sono allo stesso tempo un grido di rabbia e una richiesta di aiuto. Su ognuna è stampato un nome, il referto di un’analisi del sangue e una denuncia: “State avvelenando i nostri figli”.

“Mia figlia Maria ha 18 anni. Nel sangue ha un tasso di Pfoa (acido perfluoroottanoico) di 86,9 nanogrammi (ng) per millilitro. Normalmente il tasso varia tra 1,5 e 8 ng”, racconta Michela Piccoli, l’infermiera promotrice del comitato Mamme no Pfas, che da tre anni si mobilita insieme ad altri gruppi per difendere il diritto all’acqua pulita.

Su un territorio di 700 chilometri quadrati tra Verona, Vicenza e Padova, l’acqua, proveniente da una falda freatica larga come il vicino lago di Garda, è di fatto completamente contaminata. Dalla metà degli anni sessanta e fino a novembre del 2018, data del fallimento dell’azienda, lo stabilimento chimico della Miteni, nel comune di Trissino, avrebbe riversato sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) in un fiume vicino – fino a 1,2 milioni di nanogrammi per litro – intossicando circa 350mila persone.

“Per il numero di abitanti coinvolti e per le dimensioni della falda freatica, la seconda più grande d’Europa, si tratta di una vicenda eccezionale”, osserva Matteo Ceruti, l’avvocato di decine di Mamme no Pfas che si sono costituite parte civile. “L’azienda era al corrente da molto tempo della contaminazione e aveva l’obbligo di segnalarlo alle autorità, cosa che non ha fatto”, sostiene l’avvocato. “Solo nel 2017 abbiamo saputo della gravità della situazione, quando abbiamo ricevuto i risultati delle prime analisi del sangue”, precisa Piccoli, all’interno del palazzo di giustizia dove 13 dirigenti, tra cui gli ex vertici della Miteni, potrebbero essere chiamati a rispondere di disastro ambientale e avvelenamento delle acque.

“All’epoca non sapevo nulla di queste sostanze, non avevamo mai sentito parlare degli Pfas e come tutti a casa bevevamo tranquillamente l’acqua del rubinetto”, afferma Monica Lea Paparella, un’insegnante che vive a Brendola, piccola cittadina nel cuore di quella che ormai è ufficialmente chiamata la zona rossa.

“Alcuni medici di famiglia avevano osservato diversi casi strani nella regione, come quello di una coppia, marito e moglie, entrambi con un tumore al rene”, osserva Francesco Bertola, che fa parte dell’Associazione internazionale dei medici per l’ambiente. “Ma non avevamo elementi per mettere in relazione queste patologie con la contaminazione dell’acqua”.

Lo scandalo è emerso solo nel 2013. Nel quadro di uno studio dell’Unione europea sulla presenza di sostanze perfluorate nei fiumi era stato sottolineato l’inquinamento prodotto dalla Miteni nel bacino del Po. Il ministero della salute italiano aveva definito le concentrazioni “preoccupanti”. In alcuni pozzi della regione il tasso di Pfas supera i ventimila nanogrammi per litro. L’intera falda freatica è inquinata. “Per decenni l’acqua così com’è non potrà essere usata”, spiega Nicola Dell’Acqua, nominato nel 2018 commissario per la crisi Pfas in Veneto.

Valori anomali

Una prima indagine sanitaria su circa cinquecento persone – per metà provenienti dalla zona rossa e per metà da territori non esposti – fatta tra luglio del 2015 e aprile del 2016, ha rivelato una concentrazione anormale di Pfas nel sangue degli abitanti della zona rossa, in particolare tra gli agricoltori. A quel punto la regione ha deciso di approfondire le ricerche.

A gennaio del 2017 è stato elaborato un piano di sorveglianza sanitario che ha interessato tutte le persone nate tra il 1951 e il 2002 in 21 comuni della zona rossa, in totale almeno 72mila abitanti. Dopo i primi risultati, le madri hanno cominciato a mobilitarsi. “La cosa più terribile è pensare che abbiamo potuto contaminare i nostri figli durante la gravidanza e l’allattamento”, dice Michela Zamboni, che di mestiere fa la grafica. “Nella zona rossa il 90 per cento delle persone ha dei valori anomali”. Piccoli completa la situazione: “In media abbiamo 78 nanogrammi per millilitro di Pfas nel sangue, cioè il triplo rispetto agli abitanti dell’Ohio, negli Stati Uniti, contaminati dagli Pfas dell’azienda Dupont”.

“In Veneto abbiamo la fotocopia di quello che era successo negli Stati Uniti dieci anni fa. Le autorità avrebbero dovuto trarne le conseguenze e agire in anticipo”, spiega Bertola, che aggiunge: “Dalla fine degli anni duemila gli scienziati statunitensi hanno mostrato che c’era una correlazione probabile tra l’esposizione agli Pfas e una serie di malattie, in particolare l’ipertensione nelle donne incinte, i tumori al rene o ai testicoli”. Per questi tumori una ricerca condotta nel 2016 nella zona rossa ha individuato un aumento del 30 per cento rispetto al tasso normale. “Non ci sono mai stati veri studi epidemiologici”, dice l’avvocato Matteo Ceruti. “Si osserva l’aumento di alcune malattie ma non si va oltre questa semplice constatazione”.

Tuttavia all’università di Padova l’endocrinologo Carlo Foresta ha stabilito che gli Pfas riducono la produzione di testosterone dal 40 al 50 per cento con pesanti conseguenze sulla fertilità degli uomini e interferiscono sul progesterone. “Osserviamo un’alterazione del sistema riproduttivo e delle gravidanze delle donne che vivono nella zona contaminata. Comporta, tra le altre cose, che le donne hanno più aborti consecutivi e che i bambini nascono prematuri e sottopeso”, specifica il professore, che parla anche di una densità ossea inferiore del 30 per cento nei giovani tra i 18 e i vent’anni. Secondo Foresta, “le sostanze accumulate possono rimanere per più di dieci anni nell’organismo”. A ottobre del 2017 la regione Veneto ha stabilito il principio “zero Pfas” per l’acqua potabile nella zona rossa. “Prima non c’era alcun limite”, spiega il commissario Nicola Dell’Acqua, che chiede di adottare in tempi rapidi norme a livello europeo, perché “oggi in Europa ci sono altre Miteni. Se si fissano dei limiti solo in una regione, le industrie chimiche si sposteranno in un’altra”.

Nelle zone interessate dall’inquinamento delle falde sono stati installati dei filtri per purificare l’acqua del rubinetto e si stanno costruendo 60 chilometri di tubazioni. Tra qualche mese trasporteranno l’acqua dalle montagne.

Spinaci pericolosi

Gli abitanti però sono diffidenti: “Mi ricordo dei sindaci che ci assicuravano che l’acqua era pulita, cosa che non era vera. E di quando, all’inizio, le Mamme no Pfas venivano bollate come allarmiste”, si arrabbia Monica Lea Paparella. “La fabbrica di Trissino, nonostante sia stata chiusa, non è stata ancora bonificata”, denuncia.

Il commissario Dell’Acqua è meno pessimista: “La messa in sicurezza del sito è cominciata, ma i lavori di bonifica richiederanno molto tempo”. Nel frattempo nei fiumi della regione è vietato pescare, ma nelle case l’acqua corrente è di nuovo potabile.

“Il problema è che la contaminazione passa attraverso il cibo”, osserva Bertola. Gli allevatori e gli agricoltori continuano in parte a soddisfare le loro grandi esigenze idriche attingendo acqua dalla falda contaminata. Il risultato è che nella regione 250 grammi di spinaci contengono 350 nanogrammi di Pfas e un kiwi di 60 grammi fino a 1.800 nanogrammi.

“Capiamo le difficoltà dei contadini, ma abbiamo dovuto rinunciare agli alimenti prodotti localmente”, spiega Laura Ghiotti, una delle Mamme no Pfas. Come il resto della popolazione, si preoccupa di nuove sostanze chimiche che avrebbero già sostituito i vecchi Pfas anche se questi non hanno ancora finito di produrre i loro effetti nefasti.

Nel frattempo, nel sottosuolo, la falda freatica contaminata continua ad avanzare in direzione di Venezia al ritmo di un chilometro e mezzo all’anno. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati