Il ritorno dei Gialappi, anche se in versione ridotta, con Carlo Taranto in prepensionamento volontario, potrebbe ispirare una rubrica dal titolo “Quando si rideva”, in cui riesumare, in un’epoca segnata dai rimpianti, meccanismi collaudati del verbo ridere. Nel classico studio un po’ bar un po’ discoteca di provincia, dove ogni intelligenza naturale è alienata a vantaggio della straordinaria cialtroneria del Mago Forest, si alternano talenti conosciuti, come Pantani e Lodigiani, e qualche novità. Le voci di Santin e Gherarducci riemergono con una familiarità che fa vibrare la placenta irrigidita di noi spettatori anchilosati. I Gialappi cominciarono a Radio Popolare, e per un bizzarro riciclo degli eventi, il ritorno avviene su Tv8 e non su Rai o Mediaset, distratte da altre faccende. A ricordare l’attualità del marchio ci aveva provato Fazio, ospitandoli per presentare il loro libro. Ottimi gli ascolti del rientro, ma c’interessa di più manifestare gratitudine per la sapiente dote, ancora oggi, di condurci fuori scena, e diventare insieme alle loro voci un coro improntato alla presa per il culo. Di noi stessi, potremmo dire con moralismo. E invece no. Sbeffeggiamo gli altri, i creduloni, gli entusiasti, i presuntuosi, gli imbranati. Mai ridendo “di” qualcuno, insegnano i nostri, ma “su” cose, eventi o persone, senza contestare a chicchessia la dignità di esistere e di schiantarsi contro il muro. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1513 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati