Tutte le mattine dal lunedì al venerdì alle 10 Abdullahi Mire conduce un programma radiofonico per gli abitanti di Dadaab. Il suo studio si trova all’interno di un container riconvertito, usato in passato dalle Nazioni Unite per rifornire questa città del Kenya orientale, che ospita diversi campi profughi. Attivista e scrittore di 32 anni, Mire usa la sua ora su Radio Gargaar, l’unica stazione locale, per combattere la disinformazione legata alla pandemia di covid-19. Agli ascoltatori dice “niente panico” e dà aggiornamenti regolari, intervistando degli esperti che sfatano i miti che circondano il virus. La sua voce è diventata così nota che le persone lo chiamano “Corona guy”, il ragazzo del coronavirus.
Finora il Kenya ha registrato più di diecimila casi di covid-19 e 197 morti. Isolata dal resto del paese, all’inizio la zona di Dadaab, uno dei più grandi insediamenti di questo tipo nel mondo, con una popolazione di più di 217mila persone, sembrava essere stata risparmiata. Le cose sono cambiate il 18 maggio, quando il ministero della salute del Kenya ha confermato i primi due casi positivi nei campi di Ifo e Dagahaley. Una pandemia a Dadaab potrebbe avere effetti devastanti. Le difficili condizioni creano un ambiente perfetto per il virus, ma Mire pensa che “l’ignoranza e la mancanza d’informazione” siano una minaccia altrettanto seria. “La maggior parte degli abitanti della comunità non è preoccupata”, mi spiega al telefono. “Le persone dicono ‘siamo neri, e il sole da noi picchia forte’. Sono convinti che questi due fattori li proteggano dal virus”.
Mire aveva solo tre anni quando la sua famiglia arrivò nel campo, in fuga dalla guerra in corso nella vicina Somalia. Oggi dirige il Dadaab book drive, un progetto educativo creato da alcuni ex abitanti dell’insediamento, ed è diventato un’importante figura locale.
Come succede in qualsiasi altro luogo del mondo, anche a Dadaab è difficile capire da dove provenga la disinformazione, ma i social network, WhatsApp e il passaparola hanno un ruolo importante. Mire pensa che sia suo dovere dare informazioni basate su fatti verificati e che siano facili da capire. Sulla radio e su internet “predica il vangelo” del lavarsi le mani e fornisce un flusso costante di consigli su come proteggersi dal virus.
È convinto che la radio sia di gran lunga il miglior modo di raggiungere le persone: una cosa comprensibile, se si pensa all’antica tradizione somala della narrazione orale. Ma per gli abitanti dei campi profughi anche prendere precauzioni minime contro il covid-19 è un’enorme sfida. “A Dadaab si fanno code per qualsiasi cosa”, spiega. “Il distanziamento sociale è impossibile, centinaia di persone condividono un unico rubinetto dell’acqua”. John Kiogora, coordinatore sanitario dell’ong International rescue committee, è d’accordo. Secondo lui, per le scarse condizioni sanitarie e il sovraffollamento, gli insediamenti di questo tipo in Kenya, Libano o Bangladesh sono molto vulnerabili alla diffusione di malattie infettive. E la densità della popolazione di Dadaab è un problema particolarmente serio.
Fatiche quotidiane
Muhuba Hassan Hilow, una madre di 52 anni che vive con i suoi otto figli nel campo di Dagahaley, deve fare i conti con questa realtà ogni giorno. Seguire anche le linee guida più rudimentali su igiene e distanziamento sociale è un lusso che non si può permettere. “Abbiamo pochissima acqua, niente sapone per lavarci le mani, e appena quello che ci serve a lavare i nostri vestiti”, racconta. “Questa è una malattia che dio ci ha lanciato addosso. L’unica cosa che posso fare è pregare”.
A Dadaab sono state prese misure supplementari: sono stati creati tre centri d’isolamento, per un totale di ottocento posti letto e un ventilatore. Il numero di casi al momento è fermo a 14. Come conferma Eujin Byun, portavoce dell’agenzia per i rifugiati dell’Onu in Kenya, è stato attivato un sistema per tracciare i contatti.
◆ 1988 Nasce in Somalia.
◆ 1991 Scappa dal paese, dov’è scoppiata la guerra civile, e insieme alla famiglia si rifugia nel campo di Dadaab, in Kenya.
◆ 2020 Dopo i primi casi di covid-19 in Kenya, usa il suo programma radiofonico per dare informazioni utili a limitare il contagio.
Mire cerca di dare il suo contributo. Ha collaborato alla traduzione in lingua somala delle informazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sul covid-19, che sono state distribuite sotto forma di volantini e manifesti. Attualmente è impegnato a produrre una pièce radiofonica sulla pandemia e ha di recente ricevuto una borsa di studio dall’associazione umanitaria Internews, che si occupa di sviluppo dei mezzi d’informazione, per continuare il suo lavoro.
Spesso si trova a confutare teorie spacciate per scientifiche, a spiegare che non è vero che il virus non colpisce i somali o che le cinque preghiere islamiche quotidiane proteggono dall’infezione. A Dadaab però alcuni abitanti sono terrorizzati. Questa paura è stata indirizzata verso gli “stranieri” e chi è stato all’estero di recente. “Alcuni credono che il virus sia nato in occidente”, mi dice Mire. “Ci sono anche voci che sia stato creato da agenzie umanitarie internazionali per fare soldi”.
Hassan Mohamed Yusuf, 64 anni, vive nel campo di Hagadera, sempre a Dadaab. Fuggito da Mogadiscio 16 anni fa, oggi è padre di sei figli adulti e nonno di tredici nipoti. Mi ha spiegato che, ogni volta che nel campo arriva qualcuno dal mondo esterno, i suoi vicini si preoccupano tantissimo: “La gente scappa da queste persone, gridando ‘è uno straniero’, oppure ‘è stato da poco negli Stati Uniti’”. Quest’ondata di disinformazione non riguarda solo Dadaab. A maggio l’Oms ha avvertito che l’Africa potrebbe essere colpita da 44 milioni d’infezioni e 190mila morti. Ad aprile Save the children in Somalia ha coinvolto in un sondaggio oltre tremila persone, e il 42 per cento degli intervistati era convinto che il covid-19 fosse parte di una “campagna governativa”. Nella Repubblica Centrafricana anche operatori umanitari e mediatori di pace sono stati attaccati da gruppi di persone che li insultavano, e gli stranieri sono sempre più spesso visti come untori.
Il Kenya è una delle principali mete per i profughi in Africa. Accoglie più di mezzo milione di sfollati, la maggior parte dei quali sono fuggiti dai conflitti in Somalia e Sud Sudan. Mire teme che questa paura degli stranieri possa essere indirizzata contro i profughi. Secondo lui il governo kenyano “non si fida pienamente di loro”, e il rischio è che diventino un capro espiatorio.
Il 16 maggio il presidente kenyano Uhuru Kenyatta ha chiuso il confine con la Somalia. Prima di allora, a fine aprile, il governo aveva sottoposto campi come Dadaab e Kakuma, nel nordest del paese, a un rigido confinamento, nel tentativo di arginare la diffusione del covid-19. I viaggi in entrata e uscita dei campi sono stati vietati, e al personale umanitario vengono concesse deroghe caso per caso.
In passato il governo kenyano aveva già minacciato di chiudere del tutto il complesso di Dadaab, l’ultima volta nel marzo 2019, ma poi era tornato sui suoi passi. Adesso Mire e molti altri temono che i politici possano sfruttare le opportunità fornite dalla pandemia per riprendere quel progetto.
Oggi Dadaab è più isolata che mai. Da quando l’Oms ha dichiarato il covid-19 una pandemia, a marzo, “nessuno ci dice gran che a proposito del virus”, racconta Yusuf. “È chiuso tutto e gli operatori umanitari sono scomparsi”. “Ho paura perché ho il diabete, e ho sentito che le persone come me saranno più esposte”, ha aggiunto. “Le cure sanitarie qui sono poche o inesistenti. Questa cosa rischia di spazzarci via”. Yusuf ha comunque preso gli annunci di Mire sul serio. Anche se stringersi la mano e abbracciarsi è fondamentale nella cultura somala, dopo aver ascoltato i consigli di radio Gargaar, Yusuf non stringe più la mano alle persone che incontra. Una prova che il messaggio sta funzionando. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati