L’incontro tra il presidente statunitense Joe Biden e il cinese Xi Jinping sull’isola indonesiana di Bali, a margine del G20, è stato un paradosso. Da un punto di vista formale sembrava uno di quei vertici della guerra fredda in cui si insisteva sul rispetto reciproco, dall’altro è stato la prova che la guerra fredda non tornerà. Detto in altri termini, sono le insicurezze e le ambizioni di quelle che potremmo definire medie potenze, e non una grande strategia degli Stati Uniti o della Cina, a plasmare il panorama geopolitico attuale.

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Vista da lontano, la guerra della Russia contro l’Ucraina potrebbe sembrare una replica dello stallo che c’era ai tempi della guerra fredda tra il “mondo libero” e l’autoritarismo russo (e cinese). Ma un’osservazione più approfondita complica il quadro generale. Se è vero che gli alleati degli Stati Uniti in Europa si sono uniti a difesa dell’Ucraina e contro il tacito sostegno di Pechino alla guerra di Vladimir Putin, altri stati, soprattutto nel sud del mondo, hanno dato una risposta diversa. E questo ha senso nel contesto del collasso dell’ordine mondiale dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Un alleato di lunga data di Washington, l’Arabia Saudita, e un attuale partner per la sicurezza, l’India, hanno recentemente rimodulato la loro relazione con gli Stati Uniti. I sauditi hanno cominciato ad avvicinarsi ai cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Intanto gli indiani si sono fatti ingolosire dal petrolio russo a prezzi scontati (anche se a settembre Narendra Modi ha rimproverato Putin per aver scatenato la guerra).

Sono le ambizioni dell’India, dell’Arabia Saudita o della Turchia, e non una grande strategia degli Stati Uniti o della Cina, a plasmare il panorama geopolitico attuale

Gli appelli occidentali alla solidarietà con l’Ucraina sono spesso caduti nel vuoto. Il sud del mondo fa fatica a vedere la resistenza di Kiev a Mosca come una guerra anticoloniale. Le identità postcoloniali sono state forgiate dalle lotte contro gli imperi europei o contro l’egemonia statunitense, non contro la Russia o la Cina. È vero che gli Stati Uniti sono in difficoltà con alcuni vecchi alleati. Ma anche gli amici della Russia in Asia centrale hanno cominciato ad avere delle perplessità. Per esempio l’invasione russa ha indebolito l’alleanza tra Mosca e il Kazakistan.

La guerra in Ucraina ha reso evidente il ruolo delle medie potenze nella ridefinizione dei rapporti di forza internazionali. Di questo gruppo fanno parte degli improbabili compagni di viaggio che hanno poco in comune: Sudafrica, India, Corea del Sud, Germania, Turchia, Arabia Saudita e Israele, solo per fare qualche nome. Alcune sono democrazie, altri regimi autoritari e altri ancora si trovano in una zona grigia intermedia. Questi paesi hanno forgiato la loro identità dopo la guerra fredda in un mondo interconnesso, in cui i maggiori partner commerciali spesso non sono i più stretti alleati e il disaccoppiamento tecnologico tra Stati Uniti e Cina può rivelarsi più importante del divario ideologico tra i due paesi.

Alcune medie potenze sono paesi in via di sviluppo in crescita demografica, altre sono economie avanzate che lottano contro il calo della natalità. Alcune sono ben integrate nella comunità internazionale, altre no. Ma tutte condividono una caratteristica fondamentale: vogliono sedersi al tavolo delle trattative e non ai margini, perché hanno l’ambizione di plasmare le regioni d’appartenenza. Come sostiene Shannon K. O’Neil nel libro The globalization myth (Yale University Press 2022), nella maggior parte del pianeta la globalizzazione si traduce in una regionalizzazione. È questa la chiave dell’influenza delle medie potenze.

Il ruolo della Turchia nel conflitto tra Russia e Ucraina è un esempio da manuale. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, contrario alle alleanze da guerra fredda, si è costruito ingegnosamente un ruolo degno di Zelig: è la sposa a ogni matrimonio e il bambino a ogni battesimo. Prevedibilmente, Ankara ha sminuito la sua identità di paese della Nato e alleato degli Stati Uniti, preferendo il ruolo di mediatore tra Mosca e Kiev.

L’attivismo delle medie potenze può essere salutare, come nel caso delle iniziative dell’Unione europea sul clima, o sanguinoso, come quello a sostegno dell’invasione russa dell’Ucraina. Ma è la nuova normalità, il marchio di fabbrica dell’ordine internazionale. Una cosa è certa: non ci sarà una nuova conferenza di Bandung (la città indonesiana dove nel 1955 si riunirono i paesi contrari al colonialismo) né la resurrezione di un movimento dei non allineati. Non c’è un’ideologia che accomuni le medie potenze. Anzi, spesso hanno interessi divergenti. E il loro non è nemmeno un movimento.

Le medie potenze aspirano ad avere l’influenza globale di Washington o Pechino, ma sanno che è un’eventualità improbabile. Ma se durante la guerra fredda si dovevano adattare ai capricci delle superpotenze, oggi sono Stati Uniti e Cina a dover fare i conti con loro. L’invasione dell’Ucraina è l’esempio più chiaro della nuova realtà in cui viviamo. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati